EUROPA

Parole e fatti: Tsipras non è Dudu

Le parole contano. In sé e associate a determinati ordini di fatti. Si usano parole diverse in contesti diversi, come si richiedono livelli di precisione diversi (dal metro al millimetro al nanometro) per spalare la neve, calibrare al tornio, applicare nanotecnologie.

Sarebbe assurdo calcolare in nm il lavoro di uno spalatore o in millimetri la grandezza degli elementi di un microprocessore, per quanto la stessa persona possa essere addetta a differenti operazioni e le grandezze siano aritmeticamente convertibili. Allo stesso modo, ferma restando la traducibilità reciproca, in discorsi e pratiche diverse la stessa persona deve ricorrere a espressioni diverse per raggiungere la semplicità intellettuale e l’efficacia operativa adatte: se non lo fa, è uno sciocco o vuole imbrogliare le carte.

Per esempio, lo storytelling è un termine pertinente per analizzare il pensiero di Hannah Arendt o (all’opposto!) le tecniche aziendali e pubblicitarie di circonvenzione di incapaci: usata nel discorso politico evoca subito i tweet renziani su Marta o le fumisterie vendoliane. Chiacchiere e distintivo. Uno pensa che ti butti a votare Mattarella-a-schiena-dritta…

Il nobilissimo kairós è utilissimo per ricostruire una teoria della temporalità o per recensire Toni Negri, in politica ingenera il sospetto di voler acchiappare la prima occasione che passa. Lo stesso marchio aleggia sull’aggettivo “ibrido” e sul verbo “ibridare”, più che legittimi a trattare di gender e border, maledettamente prossimi all’area semantica politichese di “trafficare” nel gergo corrente dei partiti e talvolta anche dei movimenti, sempre esposti all’attrazione corruttiva di tavoli negoziali e ambizioni di interferenza laddove fallisca l’opposizione.

Intendiamoci, in ogni prassi politica, anche di movimento, i momenti di mediazione e compromesso sono inevitabili e spesso portano a risultati positivi, consentono di attestarsi in condizioni più favorevoli di lotta: a patto, però, che li si chiami con il loro nome, senza avvilupparli in terminologie inadatte (cioè adatte ad altri livelli), con l’unico effetto di intorbidare le acque, come fa la seppia inseguita dai predatori. La crisi della rappresentanza si presenta insieme a livello di analisi politologica ma anche di piazza (nessuno ci rappresenta!), ma perché risolverla linguisticamente in messa a tema del problema del potere per significare, in pratica, partecipazione a un processo partitico tradizionale o elettorale? Ciò che non è vietato, in certi casi addirittura necessario (vedi Syriza e Podemos), ma deve essere discusso in modo aperto e circostanziato, non sublimato in figure strategiche universali, come (in accezioni opposte) si parla di stato d’eccezione in riferimento a passamontagna e molotov o di misteriosa torsione della retta rivoluzionaria per spericolati cedimenti all’ordine costituito.

Vecchia tradizione della III Internazionale, si dirà, ricorrere a un repertorio fisso di citazioni di Marx, Engels e Lenin o di precedenti rivoluzionari francesi e russi per giustificare gli zig zag della strategia e della tattica. In quel caso, però, c’era una certa (magari sanguinosa) corposità degli eventi messi in opera che realizzava gli arbitri filologici e su cui si poteva dare un giudizio. Se invece, come oggi, c’è poco materiale fattuale (scontri a un corteo, fumosi convegni, acrobazie di votazioni), il difetto risalta con maggiore evidenza. Diciamola tutta, è comico.

Questa verbosa premessa introduce una riflessione sui contraccolpi locali e italiani della vittoria elettorale di Syriza. Conosciamo i caratteri distintivi di tale esito e i rischi in cui quell’esperienza può incorrere. Si tratta di un successo conseguito dopo un ciclo di declino dei movimenti sociali e sindacali che non erano riusciti a bloccare l’austerità imposta dalla troika, dunque di un successo “sostitutivo” che necessita di essere corroborato e puntellato da una vigorosa ripresa delle lotte. Tuttavia vogliamo esaminare lo scarto fra il linguaggio di Syriza e del governo Tsipras e quello delle forze politiche italiane che, con simmetrica inutilità, sono saltate per tempo sul carro del vincitore (la canticchiante brigata Kalimera) oppure hanno ostentato che, loro, ad Atene il 25 gennaio non ci andavano (che paura). Certo, il linguaggio di uno schieramento vittorioso e di un governo è strettamente connesso ai fatti, alle decisioni legislative e amministrative –anche se Renzi dimostra che il linguaggio può consistere solo di tweet retorici e vaghe promesse senza riscontro effettuale. Mentre le sinistre italiane si sono divise in critiche scandalizzate, rilanci al rialzo, rivendicazione del successo come cosa propria, arrampicate sugli specchi per dimostrare che JeSuisAlexis e che la nostra Syriza consiste nel sostenere Renzi, il governo greco ha preso misure e impegni concreti che costituiscono una sfida pericolosissima ai poteri finanziari europei e mondiali, ma allo stesso tempo vengono incontro ai bisogni popolari più urgenti e vitali: blocco delle privatizzazioni e ritiro dei licenziamenti di massa già effettuati, sostegno ai ceti più poveri (sanità, elettricità, pensioni), elevazione del salario minimo da 470 a 751 €. A fianco di questi provvedimenti per riavviare il mercato interno congelato (misura “intollerabilmente” neokeynesiana, vero, ma non si può avviare una svolta a stomaco vuoto e senza assistenza medica, e che cazzo! –per usare il linguaggio appropriato), Tsipras ha aperto una contrattazione del debito greco con l’Europa dando un’interpretazione sviluppista al Quantitative easing. Il ministro delle finanze Varoufakis, opponendosi alle pretese della troika e alla logica del fiscal compact, a giusto titolo ribattezzato fiscal waterboarding, respinge la concessione differenziata del flusso monetario secondo i livelli di indebitamento (cioè il carico del rischio per l’80% sulle banche nazionali) e sostiene che, per conseguire un visibile successo in termini di stabilità monetaria e ripresa produttiva, occorre rompere con la logica del debito (entità e scadenze), se si vuole evitare la frammentazione dell’Europa e l’incistamento della deflazione.

Un programma che non è rivoluzionario, ma si urta drasticamente con le richieste europee e allevia le indicibili sofferenze popolari in cui la Grecia versa dal 2009. Una risposta anche irridente alla timidezza di Draghi e della socialdemocrazia europea, come Varoufakis ha scritto sull’Economist il 20 gennaio 2015, alla vigilia delle elezioni: «Doing something is not always better than doing nothing, especially when there are alternatives better than either». Di conseguenza, nel primo incontro con l’emissario della commissione Ue il neo-ministro, dopo un arrivo cool in moto e zainetto, gli ha sbattuto in faccia l’ultima tranche degli aiuti della troika, declinandone la supervisione. Il confronto inizia in modo duro, con la richiesta di una moratoria di 5 anni per il pagamento del debito e la cancellazione dell’obbligo dell’avanzo primario. Su questo dovranno pronunciarsi i partiti socialdemocratici (Gabriel, Schulz e Valls hanno subito detto di no), il Pd e il governo Renzi –non si scampa.

Le misure concrete adottate dal governo Tsipras sono un sollievo temporaneo per la crisi e un comprare tempo politico per preparare il negoziato con l’Europa. In questo senso il coinvolgimento dell’Anel, le cui posizioni nazionaliste e xenofobe non sembrano ostacolare la promessa dello jus soli ai migranti nati in Grecia mentre sul negoziato debitorio marciano in pieno accordo, serve oltre tutto a garantire la sicurezza nazionale nei confronti dell’espansionismo neo-ottomano e la neutralità dell’esercito e della polizia. Il rifiuto delle sanzioni europee contro la Russia completa l’approccio internazionale, nel segno di una fratellanza “ortodossa” (comprendente anche l’irrequieta Cipro), che si accompagna però alla rottura della tradizione di subalternità dello Stato alla Chiesa (giuramento sulla sola Costituzione) e a evidenti interessi geopolitici e commerciali.

Certo, vogliamo mettere con il sorriso trionfale di Nichi Vendola, il Dudù di Human factor, che crede di aver mandato in soffitta il patto del Nazareno sostituendosi a Berlusconi nell’appoggio ai candidati e alla politica di Renzi, e con lo sgomento della “sinistra” Pd che ha seguito Bersani sino alla disfatta. Entrambi i brandelli avevano rinunciato perfino all’elementare mossa parlamentare di giocare la carta Prodi in prima votazione presidenziale. Una fine, la loro, segnata non dalla catastrofe catartica, ma dall’insignificanza, non uno schianto ma un piagnisteo: This is the way the world ends /not with a bang but a whimper…

Che le narrazioni tossiche finiscano in discarica insieme agli affabulatori!