ROMA

Lo vedi, ecco Marino…

Una riflessione verso le sfide autunnali a partire dalla città di Roma : “Come difendersi dalla “lotta di classe” scatenata dall’alto e come affermare il diritto alla città nel tempo della fine del “buon governo” saranno i terreni principali di verifica dei rapporti di forza nella tempesta neoliberale”

A un anno di distanza dalle elezioni comunali, il bilancio della giunta Marino assume i contorni del disastro. Una politica miope, subalterna ai dikat dei vincoli di bilancio europei (e al suo corollario nazionale), zelante con i poteri forti della città. Possiamo parlare di emergenza abitativa, degli spazi culturali autogestiti o del sistema di welfare locale, ma il tic di Marino e soci è sempre lo stesso: girarsi dall’altra parte per far passare indisturbati i carri armati della rendita, i tagli indiscriminati, gli sgomberi su commissione.

Le previsioni più fosche, di chi intravedeva nella “disobbedienza” alle politiche di austerità l’unica pratica possibile di “governo”, sono tutte confermate. La gestione autolesionista e provinciale della vertenza del Teatro Valle dà la misura sia del profilo della “strategia culturale” del Campidoglio che dell’incapacità di immaginare politiche di cambiamento anche quando si presentano, come regali, a costo zero.

In tre anni di occupazione, forse per la prima volta nella sua lunga storia, il Valle è stato attraversato da migliaia di persone, ospitato una programmazione di qualità e popolare, promosso un modello produttivo-gestionale all’avanguardia e in controtendenza rispetto al panorama desolante del teatro italiano. Un laboratorio culturale e una sperimentazione di autogoverno che, dalla morte annunciata del vecchio carrozzone Eti (Ente teatrale italiano), ha saputo costruire un prototipo “istituzionale” attorno al concetto e alla pratica dei “beni comuni”. Ma invece di diventare il fiore all’occhiello di una città che guarda all’Europa, il Valle è diventato campo di contesa tra ipotesi di restaurazione artistica e vendette questurine.

Un’estate trascorsa tra rigurgiti legalitari e autogol spettacolari, sgomberi coatti (il Volturno occupato) e assedi alle esperienze di welfare autogestito, come accaduto recentemente al centro sociale Corto Circuito di Cinecittà (e prima all’Angelo Mai). La storia è nota: pochi giorni fa, l’Acea provvede al distacco del servizio idrico, bloccando di fatto tutte le attività e la stessa agibilità dello spazio. Un atto provocatorio che ricorda più un’azione di guerra che un procedimento amministrativo, nei confronti di un patrimonio culturale, sociale e di servizio da venti anni parte integrante della città. Il tutto mentre, parallelamente, viene istituito un tavolo istituzionale sugli spazi sociali, presieduto dal vice sindaco e assessore al patrimonio Luigi Nieri.

La mano destra interloquisce, la mano sinistra si fa complice della guerra.

In questa cartolina triste e sbiadita, in cui si smarrisce definitivamente il significato della parola “sinistra”, ecco che spunta un raggio di sole e di speranza. L’assessore Nieri stavolta conquista la scena tra fotografi, giornalisti e cittadini, formalizzando una evento straordinario: la nascita di un parco pubblico, con al centro un lago venuto fortunosamente alla luce, nella area della ex Snia Viscosa, tra via Prenestina e via di Portonaccio, zona est della capitale a due passi dal centro.

Una gigantesca operazione speculativa, ad opera di uno tra i più noti re del mattone (Pulcini), viene bloccata e rovesciata grazie a una grande battaglia pubblica, messa in piedi da comitati di quartiere, centri sociali, associazioni e liberi cittadini. Una lotta testarda contro le collusioni della giunta Alemanno prima e contro le timidezze e i mal di pancia del centroisinistra poi, caratterizzata da un chiaro profilo autonomo e plurale. Ma anche per la sua maturità e capacità di parlare a tanti e diversi, senza alcuna paura reverenziale nei confronti della “statura” degli avversari.

Una conquista che forse, in una qualsiasi città del nord Europa, sarebbe stata garantita dal buon senso di un’amministrazione locale, ma che nel nostro paese e nella nostra città assume i contorni di una vittoria inaspettata.

Questa vicenda rappresenta la perfetta sintesi del riformismo (im)possibile ai tempi dell’austerità e della fine della politica intesa come espressione di interessi pubblici. Dopo dodici mesi di piccolo cabotaggio, provvedimenti spot (pseudo pedonalizzazioni e interventi di cosmesi urbana) e posizionamenti da risiko nell’aula Giulio Cesare, assistiamo forse al vero primo atto di discontinuità politica, figlio però della determinazione di una lotta e di un progetto nati e cresciuti nei movimenti metropolitani.

Una “rigenerazione urbana” che si è misurata nei territori e non nelle stanze ammuffite del Campidoglio, capace di scuotere dal torpore una giunta ineffabile. Un prototipo di “autogoverno” già intravisto nelle lotte dei movimenti per il diritto all’abitare (unici ad offrire un’alternativa concreta, seppur parziale, ai senza casa e agli sfrattati), nelle reti culturali informali (un’estate romana fatta di festival autogestiti e autofinanziati popolati all’inverosimile, disseminati nelle stesse periferie abbandonate dalla giunta), nei miracoli materialissimi della cooperazione sociale e del terzo settore non “embedded” che ha difeso la dignità dei servizi pubblici e dei lavoratori.

La crisi economica globale e il suo specchio politico – crisi della sovranità statale, un simulacro quella continentale – certificano la fine dei “riformismi” per come li abbiamo conosciuti, anche a livello locale. Senza un “no” costituente alle politiche di bilancio, non c’è spazio di manovra per le istituzioni cittadine, ridotte al ruolo di esattrici delle tasse e braccio armato dei tagli. Ma la lezione non vale solo per chi, nella rappresentanza, immagina ancora un ruolo non residuale, ma anche per i movimenti sociali, costretti, nolenti o volenti, a misurarsi fino in fondo con la sfida dell’autogoverno e del diritto alla città.

All’orizzonte si profilano le sfide autunnali attorno ai due fronti prinicipali dell’offensiva neoliberale di Renzi & co.: da una parte, il Jobs Act, che si propone di rendere la precarietà, i salari da fame e lo sfruttamento condizioni standard e “istituzionali” della forza lavoro contemporanea; dall’altra, il decreto Lupi e il suo corollario di tagli e privatizzazioni dei servizi locali e delle società partecipate (come emerge chiaramente dalla lettura dei piani di spending review presentati dal commissario Cottarelli), che vogliono trasformare le città in un campo docile di valorizzazione per la rendita e la speculazione.

Come difendersi dalla “lotta di classe” scatenata dall’alto e come affermare il diritto alla città nel tempo della fine del “buon governo” saranno i terreni principali di verifica dei rapporti di forza nella tempesta neoliberale.