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CULT

Lo chiamavano Jeeg Robot

Tra realismo e manga. Per evadere dalle periferie contemporanee

Enzo Ceccotti sta appollaiato in cima al Colosseo, come Nando Moriconi in Un americano a Roma, e riflette sulle parole di Brecht: è una sventura aver bisogno di eroi? Può darsi che sia l’ultima soluzione possibile per Roma e certo dopo Marino e Tronca, come non dargli un po’ di ragione? O aspettiamo Meloni e Bertolaso?

Nella metropoli contemporanea – esattamente come nella lingua – tutto è necessario o possibile, nulla semplicemente “reale” (P. Virno, Esercizi di esodo).

Perché il film di G. Mainetti, sceneggiato da N. Guaglianone e R. Marchionni (Menotti) e interpretato alla grande da Claudio Santamaria, Luca Marinelli e l’esordiente Ilenia Pastorelli, non è soltanto tenero e divertente (due ore d’un fiato), non rielabora soltanto in modo originale la tradizione fine anni ’70 del manga mecha di Go Nagai e degli anime derivati, ma è un cult movie metropolitano sulle periferie del 2016, non un superhero movie all’italiana.

Il ladruncolo Enzo in un “combattuto” trasferimento di ovuli di coca viene crivellato di colpi e gettato dall’ultimo piano di un edificio in costruzione: invece di morire come il suo complice, sopravvive e scopre di avere poteri straordinari, acquisiti per previa contaminazione con sostanze radioattive molto plausibilmente sommerse nel Tevere. Prima agli occhi della dolce e stralunata Alessia, la figlia del complice, poi nella realtà diventa un equivalente di Hiroshi Shiba, il protagonista del manga, che si trasforma in Jeeg Robot dopo essere stato pure lui crivellato di colpi. Sulla scena di una piccola mala romana ammanigliata con una robusta famiglia camorrista scoppia una lotta accanita fra il nostro eroe involontario e riluttante e il cattivissimo e irresistibile “Zingaro”, ex-Buona Domenica, cantante pop e appassionato di Anna Oxa e di ferocissimi cani.

Jeeg è imbarazzato dai nuovi superpoteri e dall’affetto della dissociata Alessia che fa saltare la sua corazza di solitudine, trascinandolo lentamente nella finzione del manga che poco a poco diventa reale. Il passaggio cruciale non sta nelle ossessive immedesimazioni della ragazza e nel suo morboso attaccamento al lettore Dvd con la serie degli anime, ma nell’ariosa e topica visita al centro commerciale, quando giocano (lui prima riluttante, poi faticosamente partecipe) a leggere in filigrana i personaggi del manga nei casuali clienti. Qui la trama fantastica è l’unica via di scampo a quello che sono diventate le periferie – le perfette location di Torbella e Ciampino che ripetono a freddo quelle di Torpigna nell’Odore della notte, chiaro punto di riferimento stilistico ed emozionale.

In un’intervista l’autore ha detto giustamente: «conosciamo anche come certo cinema italiano tratta la periferia e cioè: “Oh mio Dio… poveracci”. La camera che segue stretta i personaggi, nessun totale, la musica triste e tutti che piangono. Noi volevamo fare l’opposto. Alessia quindi è un arcobaleno. Una frattura certo… ma anche un arcobaleno».

Quella periferia non solo appare – contrariamente al mainstream della politica, del cinema e della letteratura che al massimo la raccoglie stancamente sotto le odiose etichette dei non-luoghi o del “degrado” – ma ha una sua storia: nel confronto con Caligari, nel racconto di Enzo-Hirò che all’improvviso, stimolato da Alessia, recupera una labile identità, non ripete più di non avere amici, ma rievoca la “comitiva” della sua adolescenza in una Torbella ancora nuova, malavitosa ma contraddittoria e felice. Però è tollerabile quella scena solo filtrandola attraverso l’immaginario del manga, che ricuce la città – dalla carrellata vertiginosa fra Campo Marzio e il Tevere (altro che la leccatissima Roma di Sorrentino a volo d’uccello dal Gianicolo!), all’immersione nel fiume primordiale, dalla periferia al Gra, alla curva sud dell’Olimpico, al ponte della Musica (che finalmente trova una destinazione), infine al Colosseo. Il “reale” passa attraverso il “possibile”.

Nella seconda parte del film, fermo restando che il super-eroe riassetta gradualmente l’identità non nel superomismo ma nella compensazione della propria fragilità con quella di Alessia, la dimensione fantastica, diciamo Marvel, prende più spazio nello scontro con il “cattivo”, il Joker-Zingaro (lui, sì, superomizzante). Si apprezza in questo caso la parsimonia di mezzi a parità di effetti, però non sempre convince il salto verso un progetto di liquidazione del male nel mondo (il salvataggio della bambina dall’auto in fiamme, lo sventato attentato all’Olimpico, l’insistenza su bombe e bombaroli), come non convinceva la coda di Non essere cattivo di Caligari, in cui ambiguamente il lavoro precario edile funzionava a suo modo da redenzione. Ammetto che sono questioni di gusto, magari è un pregiudizio mio. Anche in questa parte l’umorismo della sceneggiatura e la maestria di fotografia ed effetti digitali (D’Attanasio) non vengono meno, con una cura del dettaglio abbastanza insolita – è un film da grande schermo, non da streaming, come The Hateful Eight di Tarantino era da 70 mm. e non da schermo normale!

Alla fine la destinazione d’uso dei superpoteri è aiutare che si trova in pericolo, di qui l’irrompere del tragico, della morte, della dimensione eroica. Sapendo che sono stereotipi di un genere: per cui Enzo-Hirò-Jeeg, fuori posto come il Moriconi di Sordi, l’americano immaginario a Roma, si ritrova sul Colosseo, creduto morto nel tuffo nel fiume da cui era riemersa solo la testa del nemico decapitato, eroe popolare, pronto ad avviare una nuova serie. Saprà reggere Mainetti in quell’equilibrio – appunto, alla sommità del Colosseo – fra realismo e manga, fra ironia e serietà? Finora ci siamo divertiti una cifra.