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Le piattaforme del capitale

Un seminario sul capitalismo delle piattaforme e le trasformazioni introdotte dal digitale, organizzato da Euronomade in collaborazione con Macao. Milano, 3-4 marzo.

Capitalismo delle piattaforme è un’espressione generica. Da una parte è applicata per cogliere le specificità di modelli produttivi dentro la Rete, sia che si parli di Amazon che di Netflix, Google, Facebook, Istagram, Twitter. Allo stesso tempo è stata usata per segnalare le ambiguità insite nella sharing economy. Ma se l’economia della condivisione veniva annunciata come un possibile e indolore approdo postcapitalista, il platform capitalism segnala che tale possibilità è una tecnoutopia da archiviare rapidamente. Sia ben chiaro: il mutualismo, l’autogestione rimangono una prospettiva imprescindibile di ogni opzione organizzativa del lavoro vivo, ma solo in un rapporto conflittuale con l’attuale trasformazione dei rapporti di forza nella società. Ciò che emerge dalla grande crisi del 2008 è la copresenza di una economia informale e di un regime di accumulazione dove le piattaforme digitali svolgono un ruolo centrale nello sviluppo capitalistico.

Un seminario sul capitalismo delle piattaforme deve dunque compiere un doppio movimento: circoscrivere l’attenzione sulle tendenze in atto e da lì riaprire l’orizzonte. Analizzare questa realtà non ha nulla di accademico, ma serve per individuare possibili punti di rottura di un regime di accumulazione incardinato su processi di cattura ed “estrazione” finalizzati a garantire un flusso continuo di innovazione tecnologica e organizzativa, fondamentale per le tante e diversificate piattaforme digitali. Si pone dunque il compito di comprendere le forme di governance e comando del lavoro vivo, finalizzate a gestirne e alimentarne una stratificazione generazionale, razziale, di genere. Non c’è infatti nessuno “strato centrale” della forza-lavoro, bensì una eterogeneità del lavoro en general che costituisce il principio di realtà da cui partire. La sperimentazione, la conricerca sono la bussola da usare, ma rimangono dei vuoti a perdere se vengono solo evocati per poi lasciare tutto così come è. Una tema tuttavia cattura l’attenzione di giornali, magazine e centri di ricerca. Tutti scoprono la costellazione e il vortice dei “lavoretti”, attivati da applicazioni e piattaforme digitali nella cosiddetta gig economy. Importanti quotidiani scrivono ormai espressamente di neotaylorismo digitale, individuando nelle mobilitazioni dei bikers che consegnano pasti e pizze a Londra (Deliveroo) o a Torino (Foodora), nonché nelle prime proteste dei tassisti di Uber una risposta a un regime del lavoro dove la gestione automatizzata della prestazione lavorativa – tempi di consegna, tassonomia rigida dei comportamenti leciti durante il lavoro – sembrano far tornare in auge l’antica e per molti decaduta organizzazione scientifica del lavoro, con la sua rigida separazione tra progettazione e esecuzione. Soltanto che in questo caso tempi e ritmi del lavoro sono definiti da un immateriale algoritmo o da una app contro i quali è vana ogni forma di resistenza e conflitto. Per il momento emerge una mappa dei componenti di questa “folla-lavoro” all’interno di una produzione di merci diffusa la cui descrizione ricorda spesso i romanzi di Victor Hugo o la desolante moltitudine di poveri che scandiva il romanzo sociale di fine Ottocento. Povertà, assenza di diritti, invisibilità politica: elementi che stridono con la ricchezza – di relazioni sociali, di innovazione – espressa della cooperazione sociale Non c’è però nessun ritorno al passato: le attuali trasformazioni del modo di produzione capitalistico non possono essere lette come la ripetizione del processo di formazione – del making – della classe operaia nell’Inghilterra vittoriana. Siamo piuttosto in presenza di una composizione proteiforme del lavoro vivo, dove accanto a figure dequalificate convivono i professional dell’innovazione, tutti comunque accomunati da una dimensione metropolitana. La pubblicistica corrente evoca spesso la comparsa dei millenials, i nativi digitali acculturati e cresciuti dentro la Rete, ma anche di migranti con una elevata scolarizzazione.

Questa dimensione metropolitana del lavoro vivo allude quindi a processi di socializzazione niente affatto “poveri” – per quanto essi si innestino in uno scenario che, con particolare violenza nella crisi, sono caratterizzati da effettivi processi di impoverimento. Siamo di fronte al paradosso di una cooperazione sociale produttiva ricca assoggettata a rapporti sociali di produzione che echeggiano rapporti servili, all’interno dei quali le piattaforme digitali sono anche elementi preposti alla produzione di soggettività docili. Si parla inoltre, e non sempre a proposito, del potere degli algoritmi, con toni che non di rado lasciano pensare che il capitalismo – più che un rapporto sociale di produzione – sia ormai una tecnostruttura con una dinamica sistemica di sviluppo sfuggita al controllo. Ma gli algoritmi, meglio il software sono anch’essi l’esisto di rapporti sociali di produzione. E’ anche qui necessario un cambio di prospettiva. Più che un aggregato impersonale e oscuro, gli algoritmi sono infatti da considerare capitale fisso, lavoro vivo oggettivato. Serve cioè tornare a indagare quelle polarità tra capitale costante e variabile, fisso e circolante, senza nessuna concessione a uno stucchevole e paralizzante determinismo economicista. Nonostante l’enorme potere che le piattaforme del capitale hanno in relazione al lavoro vivo, è paradossale anche che tanti siano gli spazi d’azione per potersi appropriare dei mezzi di produzione. La possibilità della cooperazione sociale di farsi impresa, e le forme di questa organizzazione è un possibile terreno di conflitto per un percorso di emancipazione dal capitale. Le nuove tecnologie possono essere degli utili alleati per la creazione di nuova istituzionalità e percorsi di soggettivazione autonoma. Immaginare percorsi organizzativi di questa costellazione lavorativa è quindi l’obiettivo ambizioso che il seminario si propone di contribuire a porre. Un’ambizione tutta politica, certo, ma da perseguire con umiltà senza inseguire ipotetiche ricomposizione “dall’alto”. Quel che serve è provare a mettere ordine in una cassetta degli attrezzi per metterla alla prova del reale. Da qui la necessità di immaginare una platea di relatori per due giorni di discussioni, scanditi tra plenaria e due, tre workshop.

PROGRAMMA: una due giorni di seminari e tavole rotonde

VENERDI’ 3 MARZO

18.00 – Relazione introduttiva: Benedetto Vecchi

18.15 – 20.30 Sessione con Matteo Pasquinelli, Ned Rossiter e Brett Nielsen (video), Ippolita, Geert Lovink (video), Roberto Ciccarelli, Andrea Fumagalli

SABATO 4 MARZO

11.00 – 13.30 Sessione con Toni Negri, Sandro Mezzadra, Trebor Scholtz (video), Gianni Giovannelli, Ugo Rossi, Mayo Fuster.

13.30 – 15.00 Pranzo

15.00 – 19.00 Workshop e tavola rotonda con Emanuele Braga, Enric Duran (video), Cristina Morini, Giorgio Griziotti, Alberto de Nicola, Jaromil Denis Roio, Federico Bonelli (dyne.org), Francesca Orlandi (Berlin Migrant Strikers), Alessandro Gagliardo (Cubotto), Chiara Colasurdo e Corrado Gemini (CTRL), Daniele Gambit (Exploit).

Fonte: euronomade