approfondimenti

MOVIMENTO

L’avventuriero dell’anima

Negli anni ’70 la teoria di Freud era stata respinta dai movimenti femministi e autoritari. Melandri, seguendo la lettura di Fachinelli e le critiche femministe mostra come, tuttavia, Freud abbia tematizzato la questione del sesso e, quindi, della donna e il protagonismo del corpo, ma ritirandosi in un immaginario sessuale esclusivo e “preistorico”.

«Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario. Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità […] l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, da un pericolo interno. Bardato. Corazzato. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese […] Anche per la scoperta freudiana fu così? Un’accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto […] Il sogno osa generalmente di più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere – ciò che puoi essere, allora» (Elvio Fachinelli, La mente estatica, Adelphi 1989).

Forse l’invenzione, scientifica o non scientifica, procede sempre con un movimento analogo, che è allentamento di difese, abbandono al fantasticare, defluire di frammenti, sprazzi di idee, da cui emerge un messaggio inatteso, un pensiero più organizzato e coerente. Ma non possono non colpire le risonanze profonde tra un geniale interprete di Freud, quale è stato Elvio Fachinelli nel momento in cui si accingeva, avendo se stesso «come unica bussola», a esplorare quell’«area di frontiera» che è per ogni essere umano l’originaria indistinzione con la madre, e il singolare “conquistador” che nell’ultimo decennio dell’800 cominciava a inoltrarsi, «primo tra i mortali», in regioni inesplorate della vita psichica.

A Wilhelm Fliess, l’«amico segreto» con cui intrattiene uno scambio intenso, intellettuale e, pur nella castità, dichiaratamente amoroso, nel periodo più originale della sua scoperta – gli studi sull’isteria, l’autoanalisi, l’interpretazione dei sogni –, Freud scrive:

«Posso guarire solo lavorando con l’inconscio: con sforzi esclusivamente coscienti non posso farcela […] uno strano stato mentale che la coscienza non riesce ad afferrare; pensieri crepuscolari, la mente offuscata, appena un raggio di luce qua e là».

«In una giornata come ieri e come oggi tutto tace dentro di me e io mi sento terribilmente solo […] bello attendere che qualcosa cominci a muoversi dentro di me e che io riesca ad accorgermene. Perciò spesso sogno per giorni interi».

«Mi sono aiutato col rinunciare a qualsiasi sforzo mentale cosciente, in modo da affrontare i problemi a tentoni. Da allora ho lavorato forse meglio di prima, ma quasi non so quel che sto effettivamente facendo».

 

«Io non sono né uno scienziato né un osservatore né uno sperimentatore né un pensatore. Non sono altro che un conquistador per temperamento – un avventuriero, se volete tradurre il termine – con la curiosità, la baldanza e la tenacia propria di quel genere di individui».

 

Nel momento in cui rinunciano a tradurre «in modo razionale e scientifico» il misterioso mondo della psiche, per cimentarsi nell’«eroica impresa» di esplorare il proprio inconscio, fin nelle regioni estreme verso cui li spinge «la passione per il preistorico», sia Freud che Fachinelli operano, sia pure in contesti storici diversi, un rovesciamento di prospettiva. Ne sono investiti e trasformati in eguale misura: l’io onnipotente della ragione tecnica e burocratica, la coscienza certa di non avere alle spalle che il deserto del senso, la cultura occidentale avviata al dominio del mondo, e la figura di una maschilità distorta dall’abitudine millenaria all’offesa e alla difesa. Indagatori entrambi della felicità, a partire dalle sue misteriose radici nell’infanzia, curiosi dell’origine e della natura degli umani, disposti a imbarcare la ragione «nel mare procelloso del mondo emotivo», non potevano non approdare a verità ambigue, contraddittorie, sfuggenti a interpretazioni lineari e sistematiche, reperti di un passato mai del tutto estinto e, nel medesimo tempo, segnali di insospettate potenzialità antropologiche.

 

La scoperta dell’inconscio, e dei modi per aprirgli uno spiraglio dentro i territori della coscienza, era destinata a produrre un radicale ripensamento di quell’«enigma del dualismo» che, quasi negli stessi anni, Otto Weininger si affrettava a riportare sulle solide fondamenta della cultura occidentale, greca e cristiana. Freud si muove ancora dentro la cornice di opposizioni complementari – biologia e psicologia, vita e anima, corpo e mente, realtà e sogno – e cerca per tutti gli anni del suo maggiore sforzo esplorativo della vita psichica l’armonioso completamento di parti maschili e femminili di sé – e quindi della “fecondità” creativa – nella “gioia smisurata” che gli danno gli incontri con Fliess.

«Mi era necessario amarti per poter arricchire la mia vita […] nessuno può sostituire i rapporti con un amico che un lato particolare di me stesso –  forse femminile – richiede».

Fliess è, rispetto a Freud, colui che sa, che dà, che può appagare la fame e la sete di chi vive nell’attesa di riempire un vuoto, di ricevere incoraggiamento, consolazione, consigli.

Ma, al di là dell’aspetto più evidente del loro rapporto – in cui si mescolano le figure complementari di una sedotta e di un seduttore, di posizioni femminili e maschili scambievoli –, si profila oscuramente una situazione più complessa, destinata a gettare una luce nuova sul rapporto tra i sessi e sul legame profondo che ha tenuto insieme per millenni una comunità storica di soli uomini.

Lo svelamento non poteva che avvenire attraverso lo sguardo dell’esploratore che, con uguale ardimento, a distanza di un secolo, si addentra nello stesso paesaggio e mostra quello che l’altro non poteva ancora vedere. Nella rilettura del rapporto tra Freud e Fliess, Fachinelli scrive:

«L’attesa sembra rivolta a una figura resuscitata: quella della prima madre, iniziatrice e maestra del sapere del sesso (il riferimento è alla vecchia bambinaia che, scoperta a rubare, sarà cacciata dal fratellastro Phillip). L’incontro con Fliess l’ha fatta tornare e Fliess dovrebbe saziare una fame non saziata, colmare un vuoto che si creò allora bruscamente […] Siamo qui nell’ambito di un rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna […] Vi è un sovrappiù, un’acme di godimento, qualcosa che si collega a un ‘desiderio preistorico’, l’unico che generi felicità secondo Freud».

Ma è proprio questa «gioia smisurata» a far sorgere l’immagine dell’assorbimento nell’oceano materno, a costituirsi come minaccia per la propria identità. Dietro il sogno realizzato della fusione col primo oggetto d’amore, si profila l’ombra della pulsione di morte, cessazione di ogni tensione, cioè della vita stessa. «Come segno di compromesso» scrive sempre Fachinelli «tra tendenze all’unità e tendenze all’individuazione, affiora la figura del doppio, del gemello, dell’alter. Basta qui una sola citazione: ‘Non posso fare a meno di un altro, l’unico altro, l’alter, sei tu’».

 

Il femminile conosciuto dall’uomo nella “beatitudine”, sia pure solo sognata, di un’originaria indistinzione, è ciò da cui si fugge ma è anche nel cuore dell’amore e odio per la persona dello stesso sesso. A distanza di un secolo, nel punto più alto dello sviluppo tecnologico e industriale, la preistoria parla con la stessa lingua, ma il paesaggio e i suoi protagonisti appaiono dislocati, i contorni meno nitidi, i fantasmi più vicini alla coscienza che li ha prodotti.

 

Il mutamento più significativo riguarda la figura del padre, che già nell’autoanalisi Freud era venuto decantando. Dopo aver ipotizzato una seduzione da parte dell’adulto di sesso maschile nella genesi delle nevrosi, Freud si accorge di aver piegato la teoria alle sue fantasie, e da quel momento affiorano altri rapporti con fratelli, nipoti, soprattutto con due figure materne, la madre reale e la vecchia bambinaia, e il fratellastro Phillip, collocato nei sogni al posto del padre. A muoversi dentro un’imbrogliata vicenda famigliare è il Freud-figlio, prossimo a quella che considera l’unica felicità possibile e, nel medesimo tempo, la «terra promessa» in cui non potrà entrare. Il «complesso di Edipo» si può pensare allora che intervenga, come osserva Fachinelli, come «ideale regolatore», destinato a fare un po’ d’ordine nella grande confusione, a ridare una certa importanza e centralità alla figura di Jacob, il padre di Freud morto nel 1896, poco prima che Freud cominciasse la sua autoanalisi.

Nella zona più remota e inesplorata della preistoria degli umani non poteva che esserci il corpo femminile da cui si nasce, la memoria di un’appartenenza intima che entrambi i sessi hanno conosciuto, i segni di un desiderio sessuale che li accomuna, indipendentemente dal diverso destino che la storia ha loro assegnato. Se prima dell’autoanalisi, negli Studi sull’isteria, Freud aveva creduto di trovare l’origine della malattia nell’incompatibilità tra pulsioni sessuali e «purezza morale» delle donne prese in cura, nel Caso Dora riconosce, sia pure alcuni anni dopo che la giovane paziente aveva interrotto l’analisi, il suo «errore tecnico»: non aver detto in tempo alla malata «che il suo impulso erotico omosessuale con la signora K. era la più forte delle sue correnti psichiche inconsce». Se la madre è per entrambi il primo oggetto d’amore, come giunge la bambina a rinunziarvi e ad assumere invece il padre come oggetto? Questa “svolta” verso l’uomo, «necessaria al mantenimento del matrimonio in una società civile», concludeva Freud, potrebbe per molte donne non avvenire mai. L’affermazione «l’anatomia è il destino», con cui sembra voler dare un fondamento biologico alla differenza tra i sessi, può essere letta allora, non diversamente dal «complesso edipico», come l’extrema ratio di un osservatore che ha visto cadere ad una ad una ragioni preconcette, l’ultimo appiglio a quella visione del mondo che il suo nuovo sapere stava mettendo alle corde.

Negli anni ‘70, sia il movimento antiautoritario, che scopriva la necessità della politica di «andare alle radici dell’umano», l’influenza decisiva delle esperienze infantili sui sistemi sociali, sia il femminismo che riportava l’attenzione sul corpo e sulla sessualità cancellata delle donne, hanno riservato a Freud la stessa critica che rivolgevano a una società repressiva, patriarcale e autoritaria, proprio nel momento in cui appariva chiaro il declino della figura paterna, l’emergere, dietro al consumismo di massa, di un fantasma materno saziante e divorante. Strano, ingiustificato destino per l’intrepido «avventuriero» che, con angoscia, vergogna, tentennamenti, aveva osato penetrare il «rimosso» innominabile della storia dei padri, sfidare i rigidi codici del rigore scientifico, affinché la sua grande scoperta, la «cura delle parole», lasciasse parlare l’umano in tutta la sua complessità.

«Le storie cliniche che scrivo si leggono come novelle, prive dell’impronta rigorosa della scientificità […] una rappresentazione particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori […] Mi servo di una serie di similitudini, mi prendo la libertà di fare uso di paragoni […] mi guida l’intenzione di rendere intuibile una situazione mentale estremamente complessa e mai sinora descritta» (Breuer, Freud, Studi sull’isteria).

 

Mai il pensiero e la vita, la parola e il corpo sono parsi vicini e indisgiungibili come nella lettura che Freud fa dei sintomi isterici: un archivio di simboli, idee, esperienze allontanate dalla coscienza, perché troppo dolorose, torna a partecipare al discorso, a raccontare attraverso segnali corporei le storie di sofferenze sepolte, mai registrate.

 

Il “demone” che ora irrigidisce ora agita oltre misura i corpi delle isteriche, se va talvolta a collocarsi sotto il segno di un male da estirpare – «cavità purulenta», «camino da spazzare» –, nella maggior parte dei casi viene accolto, attraverso le fessure che gli apre la coscienza, come irruzione di energie intellettuali e psichiche sorprendenti, messaggere di individualità femminili a venire, di cui Freud sembra avere un’oscura ma inequivocabile percezione.

La scoperta della sessualità infantile e dell’influenza che ha la preistoria degli umani sulle sedimentazioni inconsce della vita psichica, non poteva che affiorare all’animo inquieto di un uomo-figlio; l’analisi in chiave psicologica dell’isteria, l’attenzione straordinaria, partecipe e lungimirante con cui Freud si addentra nelle inedite storie delle sue pazienti, sarebbe inspiegabile senza quel movimento parallelo che piega lo sguardo su di sé, su quella «parte femminile» che l’uomo tiene celata dentro la corazza della virilità, e su cui ha continuato a costruire fisionomie immaginarie dell’altro sesso. Se è l’uomo di scienza, il medico, l’appassionato esploratore della mente umana, che vede nella sessualità – identificata con la donna, la famiglia – una «stirpe» che la civiltà ha asservito alle sue «sublimazioni», non c’è dubbio che è la tenerezza filiale a voler vedere come «esente da ambivalenze» il rapporto madre-figlio, a fare dell’unità a due dell’origine il modello di ogni felicità, a leggere nelle carezze di una madre «antiche aspirazioni sessuali» inibite o scoraggiate dalla violenza maschile. L’idealizzazione dell’Eros nella sua forma primordiale, dove ancora si confondono l’Io e il suo oggetto d’amore, impedisce a Freud di accorgersi quanto abbia a che vedere con il «rifiuto della femminilità» la pulsione di morte che si accompagna all’abbraccio-inglobamento materno; è quella che lo induce a ritenere “naturale” il riserbo, la purezza morale, la dedizione della donna a padri, mariti, figli, la cura dei malati, a scapito della propria persona.

 

Foto di Lisetta Carmi

 

Ma è per la stessa ragione che, paradossalmente, Freud arriva a intuire che non è genericamente la sessualità repressa, tenuta a bada dalle convinzioni morali, a provocare la malattia, bensì la sessualità violenta, che decide del destino della donna. La «non comune intelligenza», l’«acuto spirito critico», il talento, l’ambizione, lo spirito di indipendenza, la combattività, che nota nelle sue pazienti, non incontrano solo l’ostacolo di pulsioni sessuali incanalate in disturbi corporei, ma urtano in modo più diretto e consapevole con una sorte decisa da altri, che toglie loro i piaceri più elementari, che fa del dovere, della moralità, del sacrificio, l’unica via praticabile per avere riconoscimento e autostima. Contrastano, soprattutto, con la solitudine e il bisogno d’amore a cui sembra condannata la donna che non si piega alla sottomissione, alla violenza sessuale e psicologica a cui la costringe quasi sempre il matrimonio:

«Effettivamente essa era molto scontenta del suo stato di ragazza, era piena di progetti ambiziosi, voleva studiare o perfezionarsi nella musica, si ribellava al pensiero di dover sacrificare in un matrimonio le sue inclinazioni e la sua libertà di giudizio».

«Il senso di non poter mai, come ragazza sola, godere qualcosa della vita o fare qualcosa nella vita. Fino ad allora essa si era creduta forte abbastanza per poter fare a meno dell’aiuto di un uomo, adesso si impossessava di lei il sentimento della sua debolezza femminile, una nostalgia di amore sulla quale la rigidezza del suo carattere cominciava a sciogliersi».

«La tendenza a respingere ciò che è sessuale viene ulteriormente rafforzata dal fatto che l’eccitamento sessuale nella vergine ha una componente di angoscia, il timore dell’ignoto, del presagito, di quel che verrà, mentre nel giovane maschio sano e naturale è una pulsione nettamente aggressiva. La fanciulla presagisce nell’Eros la terribile potenza che ne domina e decide il destino ed è angosciata da essa […] Il matrimonio porta traumi sessuali […] la prima notte […] tanto spesso non è una seduzione erotica, bensì uno stupro […] non credo di esagerare affermando che la grande maggioranza delle nevrosi gravi nelle donne proviene dal letto matrimoniale».

Sulla strada del suo avventuroso viaggio nel mondo ignoto della vita psichica, Freud non poteva non incontrare prima di tutto il sesso che la storia ha identificato con le sue origini – corpo, animalità, sessualità, infanzia –, e cioè la donna, ma non avrebbe potuto leggere così a fondo nelle vicende e passioni contraddittorie dell’esistenza femminile se non avesse scoperto quasi contemporaneamente in se stesso il protagonismo del corpo, dell’infanzia, dell’immaginario sessuale, di un “preistorico”, esclusivo, e perciò tirannico, modello di felicità.

 

Pubblicato su ilprimoamore.com il 24 dicembre 2010.