MONDO

La settimana che ha cambiato Città del Messico

Alla memoria di tutti coloro che hanno perso la vita nei terremoti e salvato vite umane. Città del Messico, 19 settembre 2017 e 19 settembre 1985.
Messico dentro il terremoto: catastrofi naturali e disastri neoliberali.

Sei giorni dopo il terremoto che ha scosso Città del Messico, il numero ufficiale di morti è almeno 324 in tutte le zone colpite, 183 di questi solo a Città del Messico. Curiosamente sono 122 donne e 61 uomini – le donne soffrono di un tasso di mortalità che è doppio a quello degli uomini. Altre centinaia sono ancora disperse, e questo ci indica che il numero di morti continuerà a salire nei prossimi giorni. Se accadrà come nel 1985, alcuni non si ritroveranno mai. I numeri non sono precisi perché un’altra vittima di questo disastro, non tanto naturale, è stata l’informazione affidabile. La gente nelle strade vuole sapere che è successo ai propri familiari e il governo non può o non vuole rispondere. Negli obitori e di fronte agli edifici caduti, la richiesta forte di trasparenza cresce assieme all’angoscia. L’incertezza genera voci che rapidamente riempiono il vuoto dell’informazione ufficiale. Le reti alimentano tanto la conoscenza dei fatti così come il mormorio indiscriminato.

Oltre agli edifici distrutti, in migliaia hanno subito importanti danni strutturali. Alcune famiglie hanno perso tutto. Centinaia di persone rimarranno senza casa o vivranno in situazioni precarie di sovraffollamento, con amici e parenti, per settimane o mesi. I terremoti lievi del 23 settembre hanno fatto rivivere il trauma. I danni psicologici dureranno molto di più delle crepe nelle pareti.

Il giorno che ha cambiato la città

Le sirene urlano in tutte le direzioni contemporaneamente. C’è polvere e fumo e un tremendo odore di gas nell’aria. Il personale medico e paramedico vestito di bianco lavora per soccorrere i feriti. Scendere la scala sconnessa, rimanendo in equilibrio da un lato all’altro e uscire in strada sembra già il primo miracolo. Fuori ci abbracciamo e piangiamo, e facciamo un bilancio mentre le scosse continuano. Non siamo sicuri se è la terra che continua a tremare o è il tremito dentro di noi stessi. Ogni tanto, un segnale arriva attraverso il telefono cellulare e riceviamo una piccola notizia o l’opportunità di fare una telefonata ai membri della famiglia. Dopo le linee muoiono di nuovo e rimaniamo a domandarci come starà il resto della città. Le madri si disperano a non sapere se i propri figli stanno bene.

Nel quartiere Juarez, il nostro palazzo è resistito al terremoto. Non possiamo vedere case crollate, ma sappiamo che ce ne sono per la polvere che è sospesa in aria. Vetri e pezzi di facciata ostruiscono le strade, ora abbandonate dal traffico giornaliero che ha lasciato la strada libera a veicoli di emergenza. I medici sollevano con attenzione una donna che era a terra, posandola su una barella, e cercano di non muovere la colonna vertebrale. Alcuni dicono che è andata in panico quando è iniziato il terremoto. Altri dicono che è caduta a terra quando i pezzi di asfalto hanno iniziato a rompersi.

Non c’è stato nessuno avvertimento. Per tutti i sofisticati sistemi sensoriali di terremoti, questo è arrivato nascosto al radar ed è esploso nella nostra coscienza, scuotendoci assieme alle sirene di allarme ormai inutili. L’epicentro era vicino, tanto da essere a 100 kilometri da questa città capitale di 21 milioni di abitanti. Ai terremoti non si danno nomi come agli uragani, ci si domanda allora “come chiameranno i nostri posteri questo?” “Terremoto del 19 settembre” è già utilizzato. Il terremoto di questa settimana è capitato lo stesso giorno del terremoto devastatore di 32 anni fa, che causò tra i 5 e 10 mila morti e dispersi. Nessuno ha messo da parte l’ironia.

Arrivai a Città del Messico nel 1986 come studente con una conoscenza rudimentale della lingua spagnola. Trovai una città in rovina. Camminando per le strade, isolati interi erano solo resti di edifici e fantasmi della gente che un tempo vi aveva vissuto e lavorato. Un governo epicamente corrotto si era intascato il denaro degli aiuti internazionali e la ricostruzione, se mai ce ne fu una, aveva avuto tempi biblici. Cominciai a raccogliere storie di sopravvissuti – il terrore di rimanere intrappolato, i tuoi cari che muoiono, l’indignazione per i padroni di negozi che si erano precipitati a riscattare le proprie casse forti e i propri oggetti materiali lasciando gli esseri umani intrappolati in quello che rimaneva dei propri investimenti.

Il 1985 lasciò una impronta di terrore per tutta una generazione di abitanti di Città del Messico. Quando la terra trema lo sentono in tutte le ossa dei propri corpi. Perfino una scossa lieve manda almeno qualcuno all’ospedale con un collasso nervoso per rivivere il trauma. E questa scossa non è stata lieve. Dicono che l’epicentro è stato nello stato di Puebla, alla frontiera con Morelos, motivo per cui la scossa di 7.1 ha colpito quasi con tutta la sua forza in questi stati e nella mega città di Città del Messico.

Il risveglio del senso profondo di collettività

Dal primo secondo, la risposta è stata sociale. Quando si è sentita la prima scossa, la gente è uscita in strada, anzitutto per sicurezza, e in seguito per trovare conforto. Raccontano, abbracciati e in lacrime, le sensazioni terrificanti di percepire la terra muoversi sotto i propri piedi. Cercano i loro cari, condividendo la poca informazione che c’è, e guardano attoniti come si dispiega il dramma attorno a sé stessi. Si muovono in grandi quantità a piedi, poiché ogni altra forma di trasporto è scomparsa dal paesaggio urbano. E’ come le scene dei film post apocalittici, solo che non ci sono bande che si aggirano ma semplicemente cittadini obbligati a ritornare al minimo, due piedi, un cuore, nessun telefono intelligente (traduzione di smartphone ndr).

Non ha tardato ad apparire il senso profondo del collettivo. Partendo dal circolo interno della famiglia e degli amici (state bene? avete bisogno di qualcosa?) ha iniziato poi a coinvolgere completi estranei che non condividevano nient’altro che il vivere assieme in una zona di disastro. I giovani si sono fatti avanti, con migliaia di uomini e donne, afferrando un piccone e un casco e dirigendosi nelle zone delle macerie. Giovani che hanno percepito la responsabilità della dimensione comunitaria e hanno assunto il compito con tutta la propria energia e il proprio impegno. Un tweet popolare cita lo stereotipo: “I giovani nati dopo il 2000 sono apatici che passano il tempo nei social network e non fanno niente per il proprio paese” e sotto si mostra una foto di una catena umana di giovani che passano strumenti alle squadre di soccorso, con la domanda retorica: “Ora, cosa hai da dire di noi?”

Studenti universitari, operai, colf e professionisti, tutti uniti, si fanno turni di varie ore di lavoro fisico pesante, muovendo pietre, mattoni e sbarre di acciaio contorte. Sono giunti qui non solo come squadre di soccorso, ma anche come organizzatori di squadre di base. Arrivano in un centro di emergenza o in un luogo dove è collassato un edificio e immediatamente hanno creato sistemi sofisticati per classificare i doni che arrivano, coordinare le ricerche, proteggere le aree pericolose e appoggiare le squadre di soccorso. Alla UNAM, la maggiore e migliore università dell’America Latina, le brigate vanno e vengono continuamente realizzando laboratori improvvisati perché nuovi gruppi siano allenati da chi è esperto. Trasferiscono le conoscenze in un processo di apprendimento rapido che sorprenderebbe i loro professori. Devono acquisire conoscenza di cose mai studiate, che neppure stavano nel loro piano di studi. La conoscenza di come salvare la propria città.

I volontari passano per i negozi di ferramenta e comprano le proprie pale, picconi e caschi di colori vistosi. Giovani sociologi e studenti di lettere si trasformano in lavoratori della de-costruzione da un giorno all’altro. L’ambiente è serio, triste però effervescente, caricato di energia civica. L’aiuto arriva ogni minuto, fino a che escono video che annunciano un eccesso di materiale raccolto. Nei centri di donazioni stabiliti in piazze pubbliche, parchi e alberghi, i volontari ricevono quello che il pubblico offre loro, però gradiscono più di altro le batterie e i bendaggi. Tre ragazzini magri che portano pantaloni rovinati, tirano un carretto con pile di acqua imbottigliata. Una macchina passa e consegna una scatola di biscotti al poliziotto che dirige il traffico davanti al centro di raccolta di Fuente de Cibeles. I vicini portano vestiti e alimenti in latta. Due donne giovani hanno dato inizio ad un ospizio per animali domestici di chi ha subito danni. Distribuiscono volantini che dicono che offrono crocchette e servizi di attenzione veterinaria. Altri vanno di casa in casa offrendo massaggi antistress. Tutto gratis.

L’insurrezione urbana

Le regole della società capitalista sono state gettate per la finestra rotta. Chi cerca di guadagnare soldi con la tragedia, e sono pochi, è chiamato a farci i conti. Un messaggio di Whatsapp segnala che Walmart e Costco si arricchiscono con i soldi delle persone che comprano beni da donare, senza neppure offrire sconti, mentre negozi a base familiare, che sopravvivono con entrate minime hanno svuotato i propri scaffali per contribuire agli sforzi del riscatto. “Pensa a chi vorrai comprare qualcosa nel futuro” avverte il redattore del messaggio.

I media commerciali annunciano la decisione delle banche di non chiedere commissioni (in Messico, Citigroup e altre banche straniere fanno pagare per servizi più di qualunque altra parte del mondo) e Telmex (proprietario: Carlos Slim, uno degli uomini più ricchi del mondo) offre gratuitamente connessione dati di telefonia cellulare. Però non è la generosità imprenditoriale quella che supporta questo movimento cittadino. E’ la irruzione spontanea del popolo che aiuta il popolo, mostrando una unità tribale che l’egoismo della società del consumo ha impiegato decadi per annichilire. I vicini che ieri si lamentavano dei cani che abbaiano oggi si appoggiano uno all’altro come fratelli appena riuniti. Le coppie aprono le proprie case a estranei solo perché ne riconoscono la necessità.

Ai potenti non piace quello che vedono. Come è possibile che in una società intera- attraversando barriere di classe, razza e genere – si sollevi per aiutare sé stessa? Non ci può essere –secondo loro – una risposta civica massiva non controllata o canalizzata da parte della elìte. E nella capitale del paese! Disapprovano in un consenso senza parole: questo è un mal presagio per il futuro del governo autoritario in Messico, e giusto prima di elezioni presidenziali per il cambio del tiranno di turno. Che succede se la gente vede, come già sta vedendo, che non ha più bisogno di dipendere dal governo? Che succederebbe se l’attivazione dei propri muscoli civili, per affrontare il terremoto, li ispirasse fare altrettanto anche in altre sfere e con altre delle molte domande sociali accumulate, come la lotta per la libertà e la giustizia?

Cercano di imporre controlli. Negli alberghi, le forze di sicurezza permettono che entrino solo i reporter dei principali mezzi di comunicazione, soprattutto il duopolio Televisa e TV Azteca, grandi alleati del governo del PRI. I raggruppamenti di media stanno lavorando per ore per tessere una narrativa falsa che esalti i poliziotti, i soldati e i politici come eroi del riscatto, minimizzando il ruolo della società civile. Nessuno crede loro, perché quello che tutti vedono è il contrario. Ovunque, le forze di sicurezza sono ferme mentre i cittadini volontari si danno da fare, o peggior ancora, le forze di sicurezza ostruiscono le opere urgenti. Come formiche che salgono dalle fessure con un piano principale istintivo, è la cittadinanza organizzata che sta trasformando la propria città e al tempo stesso, la propria cultura politica per gli anni a venire.

In viale Cuauhtemoc, un gruppo di persone rimane sconvolto, fermo nel proprio palchetto, vedendo il teatro della vita reale. Un edifico di quattro piani si è distrutto ed è caduto indietro. In pochi minuti si è convertito in una lastra di ceramica, quello che un tempo era il tetto, sopra a un’enorme pila di macerie. Le squadre di soccorso salgono sul tetto che è un enorme piano sdruccioloso e usano corde e picconi per cercare di scavare nelle rovine alla ricerca di sopravvissuti. Centinaia di soccorritori improvvisati, con caschi economici, li vedono da terra, ora ferma, molti di loro hanno i pugni che tagliano l’aria. Nel linguaggio sismico, un pugno innalzato non è simbolo di lotta e resistenza, ma un segnale per mantenere il silenzio assoluto. Nessuno parla. Il silenzio di una moltitudine in una delle città più rumorose del mondo risulta strano, ma ha un obiettivo. Tutti sono in allerta, con la speranza di ascoltare una piccola voce o un lieve movimento che dimostri che qualcuno è ancora vivo sotto le macerie. Allora i soccorritori sapranno dove scavare ed estrarre un’altra vittoria dalle fauci del disastro. Gli adolescenti, con i pugni in alto, silenziano perfino le auto che passano per la strada.

Sfortunatamente questa volta non c’è una vittoria. Mentre esco, sento che stanno dicendo che la demolizione comincerà presto. Una volta che la squadra pesante entra in azione, la speranza che ci sia ancora qualcuno in vita si estingue. I pezzi di asfalto si spostano e trovano posizione, e se ci sono sopravvissuti saranno schiacciati. Ogni giorno che pasa riduce le possibilità di incontrare persone vive. Alcuni mezzi di comunicazione sociale denunciano che le forze armate dispiegate dal presidente vogliono impiegare già le ruspe e le gru, rinunciando al filo di speranza che qualcuno possa ancora essere estratto vivo. Ma questo è il filo che motiva ogni brigatista a continuare a lavorare per tutta la notte e al giorno successivo, perfino sotto la grandine e la pioggia. La stampa locale informa che 69 persone sono state riscattate in vita.

Mentre continuano le opere di riscatto e recupero, migliaia di persone arrivano in aiuto di estranei senza pensare se le vittime lo meritino o no, senza distinguere o discriminare, senza discorsi né fanfare. E’ una intera città in solidarietà con sé stessa, che supera di gran lunga un governo che vuole disperatamente recuperare legittimità e che marginalizza le forze di sicurezza e i politici.

Forse questi pugni alzati sì, sono un simbolo di resistenza, dopotutto.

Un disastro naturale sorge dalla natura. Ma non è un disastro fino a quando colpisce la specie che ha il potere di danno i nomi. Gli esseri umani nominano i disastri perché quando la terra si muove o i venti si agitano, distruggono quello che abbiamo costruito e minacciano le nostre vite. Per la terra, questo è puro adattamento interno a processi millenari. Alla lunga, saremo irrilevanti se non fosse per la nostra tremenda capacità di distruzione.

E’ questa coscienza della nostra insignificanza e vulnerabilità quello che ci terrorizza quando iniziano i terremoti. Il senso di sé stessi è messo in crisi in modo che non possiamo spiegare. Ma quando l’individuo scompare e il senso profondo della collettività emerge per salvare, proteggere e prendersi cura, non puoi smettere di pensare, dopotutto, che forse nel suo miglior momento c’è qualcosa di trascendente nell’umanità. Ironicamente, per Città del Messico, tra le macerie, il dolore e l’incertezza, questo è il momento.

Pubblicato il 25 settembre 2017 su Desinformemonos. Traduzione in italiano a cura di Riccardo Carraro per DINAMOPress.

Foto di copertina: Ricardo Ramirez Arreola. Foto nel corpo del testo, tratte dal reportage fotografico di Desinformemonos.