approfondimenti

MOVIMENTO

La politica del desiderio

Come si ritorna «alle radici dell’umano», fuori dalla «rovinosa dialettica che ha segnato lo sviluppo di civiltà»? In un libro del ’74 Fachinelli propone la pratica politica del «desiderio dissidente», che tanto aveva scandalizzato sia gli psicoanalisti che i marxisti, per mostrare come nella rivoluzione si debbano trasformare sia l’individuale che il collettivo.

«La difficoltà del marxismo di fronte al ’68 fu dovuta al fatto di trovarsi davanti masse che chiedevano la rivoluzione e, contemporaneamente, non erano ancora entrate nel sistema della produzione sociale, non erano dunque immediatamente e chiaramente inquadrabili in termini di classe […] È questa diversa logica di comportamento rispetto al reale e al possibile che io chiamai ‘desiderio dissidente’ […] l’aspetto iniziale, e si potrebbe dire genetico, del movimento, che viveva contrapponendosi alla logica del soddisfacimento dei bisogni fino allora dominante».    (E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli 1974).

Nel 1973 Elvio Fachinelli decide di raccogliere in un unico libro – definito nella Prefazione «un viaggio attraverso la psicanalisi e oltre» – scritti pubblicati per lo più su riviste, a partire dal 1965. Quando si accinge a scrivere le note, che affiancheranno in corsivo articoli e saggi, è ormai nella condizione di chi, avendo percorso «nuovi paesaggi», mosso da una «curiosità spinta», può guardarli alla distanza, descrivere i mutamenti che vi ha intravisto, indicarne a linee generali lo sviluppo.

Al centro compaiono i due articoli, usciti a distanza di alcuni mesi su Quaderni piacentini, in cui, in modo più diretto, «tira aria di ‘68»: Il desiderio dissidente (febbraio 1968), Gruppo chiuso o gruppo aperto? (novembre ’68). Il ’68 era ormai lontano, ma per il movimento non autoritario che faceva riferimento alla rivista L’erba voglio, e per i gruppi femministi in continua espansione in quegli anni, si può dire che era appena cominciato o mai finito. Eppure Elvio, per quella folata di futuro che vi aveva colto, per la lettura originale che ne aveva fatto, sente il bisogno di aggiungere: «e credo non ci sia motivo di vergognarsene». A quali censori pensasse è detto nel seguito del discorso: per molti, la categoria del “desiderio” aveva ascendenze culturali sospette, e la “felicità” sembrava non aver niente a che spartire con l’impresa del socialismo.

I due articoli, legati per altro alla partecipazione di Fachinelli al controcorso che si era tenuto all’Istituto di Scienze Sociali di Trento nell’inverno ’67-’68, erano stati attaccati «sia dai rappresentanti della psicanalisi istituita, sia da marxisti più o meno ortodossi». Ciò che è sentito come disturbante, da due saperi fondamentali per un’idea di «politica portata alle radici dell’umano», ma divenuti ormai ideologie contrapposte, è l’aver cercato connessioni tra ambiti apparentemente separati: natura e cultura, individuo e collettivo, inconscio e coscienza, sogno e realtà.

 

«Gli psicanalisti furono scandalizzati dal brusco allacciamento che facevo tra la figura dell’autorità famigliare e lo stato di questa autorità nelle società capitalistiche avanzate […] Da parte dei marxisti alcuni mi rimproverarono di non aver tenuto conto della specificità del conflitto di classe da cui sorgeva il movimento degli studenti».

 

Benché consapevole che bisogno e desiderio sono sempre presenti l’uno nell’altro, Fachinelli non può evitare di nominarli separatamente, quando si tratta di evitare che la nuova forma di rivoluzione, espressa dalla dissidenza giovanile, venga forzatamente riportata dentro vecchi schemi: «come se la spinta del desiderio fosse meno ‘materialistica’, o addirittura un’astuzia dell’avversario». Di politica del desiderio e del bisogno si parla in entrambi gli scritti. Dietro la contestazione di un padre forte e autoritario – figura già sbiadita – si profila un «bersaglio più lontano» e più difficile da portare allo scoperto, un fantasma di società che abbina a un’offerta di sicurezza immediata, «completa liberazione dal bisogno», una prospettiva inaccettabile: «la perdita di sé come progetto e desiderio». Al culmine del suo sviluppo, la società dei consumi sembra configurarsi immaginariamente come una madre «saziante e insieme divorante», che offre cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, a cui si accompagnano senso di impotenza e angosce di inglobamento. Antiautoritarismo diventa, nelle pratiche della dissidenza, appello contro l’“integrazione”, smascheramento delle logiche di dominio che, interiorizzate precocemente, producono consenso, accettazione passiva di un sistema «la cui regolazione è già prevista in anticipo».

Per aver trascurato i bisogni di sicurezza, protezione, affidamento, passività, che si erano riprodotti al suo interno, il movimento che nel ’68 aveva conosciuto modi di agire fluidi, come improvvise “folate”, la straordinaria capacità di rinascere dalle proprie ceneri, la forza di allargarsi «senza far uso di bibbie», si ritroverà in un tempo brevissimo diviso, isolato, irrigidito nelle maglie di vecchie ideologie marxiste-leniniste: le “fortezze” di aristocratiche avanguardie che si allineano “al limite del deserto” – come si legge in apertura di uno dei saggi più interessanti del libro, Il paradosso della ripetizione. Già nell’esperienza del gruppo di analisi, che Fachinelli aveva fatto a Trento, nell’Università occupata, si era visto quanto fosse radicata la tendenza di ogni collettività a chiudersi di fronte alla minaccia attribuita a esterni o estranei, la ricerca di una perfetta omogeneità al proprio interno e il riprodursi di fenomeni di frammentazione, espulsione del diverso. Perché il gruppo potesse mantenersi in uno «stato di desiderio», era necessario che nessun leader se ne facesse rappresentante unico o ne incarnasse l’ideale unità; era importante che la “comunanza” –trovare l’eguale nell’estraneo – fosse sentita come «un bene da estendere»:

La logica del desiderio e dell’accomunamento, nella stagione «breve, intensa, esclusiva» della dissidenza giovanile del ’68, aveva capovolto il più antico riflesso sedimentato nella collettività: «l’esercito agguerrito che schiaccia la setta diventa per esso la massa sterminata offerta alla propria comunicazione». Era stata un’esperienza transitoria, ma capace di percepire, come l’“utopia” di Walter Benjamin, le «esigenze radicali del presente» – «il possibile attualmente impossibile» –, che proprio perché soffocate torneranno a ripresentarsi con sempre nuova urgenza.

 

«La rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni».

 

Il desiderio e la dissidenza oggi sembrano essersi inabissati nella bocca vorace di una civiltà che, pur dando segni di visibile decadenza, macina ogni segnale di cambiamento, ogni forma nuova di socializzazione, ogni sapere che non sia funzionale alla sua conservazione. Non resta che sperare che la logica del desiderio, come la “passione” di Marx, la spinta ad autorealizzarsi da parte dell’uomo, lavori sotterraneamente, da vecchia talpa, e torni a sorprenderci, quando meno ce l’aspettiamo.

 

Liberazione, 12 febbraio 2007