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La doppia natura del confine

A partire dalla centralità politica della questione migratoria oggi “Una storia di confine. Frontiere e lavoratori migranti tra Messico e Stati Uniti (1836-1964)” di Claudia Bernardi (Carocci 2018) ricostruisce un secolo di migrazioni messicane in Usa offrendoci l’antefatto del feroce ma tutt’altro che inedito intervento di Trump, nonché uno specchio per leggere i meccanismi migratori dall’altro lato dell’Atlantico

I migranti – la loro irruzione sulla scena, la loro persecuzione – occupano il primo piano della politica oggi. Quelli più recenti dell’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia, quelli di più antica data dal Messico verso gli Stati uniti. Una storia di confine. Frontiere e lavoratori migranti tra Messico e Stati Uniti (1836-1964) di Claudia Bernardi (Carocci 2018) ricostruisce questa seconda vicenda offrendoci l’antefatto del feroce ma tutt’altro che inedito intervento di Trump, nonché uno specchio per leggere i nostri meccanismi della migrazione.

Un libro assai bello e utile con due protagonisti, il bracero, vittima e protagonista ribelle, e la sua frontiera, quella fra il Southwest statunitense e il Norte messicano, altrettanto mobile e viva – filtro, barriera e attrattore dei flussi di forza-lavoro, in un contesto in cui le funzioni di connessione e divisione coesistono organicamente. La “linea” più o meno fortificata è quindi, in modo  simultaneo e concatenato filo spinato che recinta privatamente e valorizza il lavoro e la terra, linea ferroviaria che trasporta i migranti e linea di fuga e il bracero, corrispettivamente, è prodotto normalizzato e vittimario di politiche statali e private, che mirano a ottenere un soggetto tractable, e fattore di inafferrabile insubordinazione, che esprime desideri e si sottrae al governo della mobilità e al regime del lavoro.

Queste figure di mobilità, di cui il confine è il perno ma che si estendono in profondità nel territorio di partenza e in quello di arrivo, sono per tutto il Novecento un universo parallelo al lavoro salariato delle fabbriche occidentali, per poi dilagare e sostituire largamente la relativa stabilità della forza-lavoro “garantita” a partire dagli anni ‘80. In questo senso la vicenda messicana ci parla non solo del ruolo crescente delle migrazioni, componenti “etniche” e linea del colore comprese, ma dell’intrinseca ambiguità della mobilità stessa della forza-lavoro. Anche assai istruttivo è l’intero sistema che governa la mobilità e regola i canali di circolazione, dalle agenzie ufficiali di intermediazione a quelle informali (ben più sostanziali e inestirpabili) non formali: il reclutatore, il mayordomo (arruolatore e “addomesticatore” dei braccianti e mediatore con i datori di lavoro), il coyote che accompagna per un tratto i migranti illegali e poi magari li abbandona in mezzo al deserto. Del pari funzionano i sistemi oggettivi: l’enganche-cuerda che regola il reclutamento, l’indebitamento, il versamento differito di parte del salario, ecc.

Istruttivi perché non solo sono traducibili in europeo-italiano in analoghe condizioni di lavoro agricolo stagionale (il caporalato) o dell’edilizia, ma perché sono profondamente connessi con le pratiche di appalto e sub-appalto che investono tutti i lavori dentro e fuori la fabbrica – manutenzione, logistica, magazzino, pulizia – spezzandone l’unità e deprimendo livelli salariali e condizioni di lavoro e rischio.

Se il caso messicano ha peculiarità assolute (lo svolgersi in territori appartenuti al Messico fino a metà Ottocento e poi conquistati militarmente dagli Usa, la pendolarità legata alla stagione del raccolto, con ritorno periodico e deportazione forzata nello stato di provenienza), la fabbrica della mobilità  (e la rete parassitaria che la gestisce) sono invece connotati stabili dell’impiego post-fordista, anche se solo in parte ritroviamo associati in Europa linea del colore e povertà produttiva di ricchezza e la razzializzazione è più mascherata. Ma sempre meno.

Capitoli fondamentali sono dedicati all’espansione statunitense verso sud-ovest (cap. 1), alla corrispondenza conflittuale fra porfiriato e poi Rivoluzione, riflusso ed età di Cárdenas  in Messico con le fasi di sviluppo, depressione e New Deal in Usa (cap. 2) e soprattutto all’organizzazione concordata fra i due stati dello sfruttamento dei migranti  sancita dal Programa Bracero, che parte nel 1942 per esigenze belliche e si prolunga per 22 anni, cercando di pianificare l’uso stagionale di milioni di lavoratori, prima in sostituzione dei soldati poi per rifornire di manodopera a basso costo i coltivatori del Southwest (cap. 3). La “normalizzazione” della gestione dei braccianti messicani (mediazione pubblica, selezione e trasporto organizzato di soli maschi robusti, salario minimo, controllo sugli abusi individuali, ecc.) non solo resta largamente sulla carta, ma l’afflusso di manodopera illegale e “indocumentada” continua a superare di gran lunga quella legale e, a conferma della natura repressiva e carceraria di questa “fabbrica della mobilità” (descritta nel cap. 4), intervengono periodiche deportazioni di massa dei wetback-mojados (quanti si sono “bagnati la schiena” traversando a nuoto il Rio Grande-Bravo o comunque sono passati di soppiatto) – un milione e mezzo nel 1954-1955–, salvo a riaprire i cancelli quando la mano d’opera a basso costo si è esaurita. Muro, espulsione, pogrom urbani (si pensi ai romanzi noir di Ellroy) sono corollari della flessibilità programmata, che è restata comunque un’eredità del Programa Bracero, di cui Trump è l’ultimo gestore in una situazione radicalmente modificata dalle attività dei narcos e dal populismo Usa. Né va dimenticata la sostanziale complicità delle autorità messicane, che cercano di far “sgocciolare” sul Norte la ricchezza prodotta dalle migrazioni, sia nelle fasi di controllo pianificato (presidenza Cárdenas) sia in quelle di mercato selvaggio (porfiriato al volgere del secolo  XX e neoliberalismo recente). Vedremo le scelte di AMLO.