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La bellezza di Roma è una cosa seria

SPECIALE L/IVRE-3. Ripubblichiamo la recensione uscita alcune settimane fa del libro di Rossella Marchini e Antonello Sotgia “Roma, alla conquista del West. Dalla fornace al mattone finanziario”, edito DeriveApprodi, che ci consegna l’esperienza di un viaggio nella città colmo di prospettiva, futuro e difficoltà. Con Antonello nel cuore!

È un libro costruito su un sapere complesso, meglio collettivo, e su una modalità assolutamente unica di raccontare; un libro generoso che apre nuovi percorsi e suscita in chi legge molti riscontri e pensieri. Proviamo qui ad individuarne alcuni, invitandovi fortemente alla lettura.

Intanto Antonello e Rossella ci parlano dell’amore per la poesia e l’immaginario, per la fantasia e lo studio, per il racconto che alle storie e ai fatti unisce le immagini. A partire dall’indice – fantasioso, ricchissimo e attraente – chi legge intraprende una vera e propria esplorazione mossa dal desiderio di curiosare nella città e nei suoi frammenti, nelle sue parti fisiche e sociali, umane e animali, vive e morte. Palazzinari, cammelli, suore, cimiteri inusuali, meravigliose comunità ribelli, scheletri edilizi, progetti passati, pini marittimi, idee concrete, case, devastazioni urbane e future opportunità si alternano rapide e sfuggenti, come se venissero guardate dal finestrino di un treno guidato con energica potenza dagli autori alla conquista del West romano. Ogni fermata ci regala riflessioni da condividere, punti di vista inediti.

A volte Rossella e Antonello scelgono di cambiare mezzo di trasporto e di volare sulla città, per capirne meglio le forme e disegnare planimetrie e mappe illuminanti. Così gli autori ci hanno spiegato la struttura narrativa scelta per accompagnarci in questo incredibile viaggio: “Il libro è composto da capitoli suddivisi in due sezioni. Intrecciandosi tra loro pongono un doppio interrogativo: dobbiamo arrenderci a fronte di un mondo che riconosciamo come insensato? I sogni finiscono? Per noi il mondo insensato è la nostra città e i sogni sono le lotte e i progetti per cambiarlo. Mondo e progetti sono la nostra vita.”

Rossella e Antonello dunque pensano l’urbanistica come una materia comune, quotidiana, nostra. Una materia che invece è troppo spesso percepita come distante, tecnica, oscurata dalla nebulosa della normativa, espressa in un linguaggio duro composto di parole usate per intendersi tra pochi aristocratici. Parole escludenti, prive di senso anche se significano qualcosa, non intuitive, utilizzate per stabilire le distanze necessarie con il territorio e tessere un lavoro meccanico di composizione tra diritti edificatori, moneta urbanistica e funzioni urbane. In questa distanza c’è lo spazio oscuro che separa la realtà dalla forma, la città dalla norma. Qui dunque devono stare le lotte urbane per ricondurre l’una all’altra, ci spiegano gli autori.

Le regole sono utili quando condivise. Sono condivise quando sono comprese. Le norme urbanistiche e del diritto urbanistico producono effetti tangibili e conosciuti: in questo senso la responsabilità politica della tecnica è determinante. Entrare nel merito di questi effetti, essere capaci di correggerli, costruire nuove norme condivise è l’obiettivo che gli autori ci indicano.

Ritroviamo, nel libro di Antonello e Rossella, la capacità di guardare le strade, i marciapiedi, le case, i vuoti, i paesaggi, senza pregiudizi vincolati a predizione e stigma, ma con la passione della loro professione, la forza dei colori e l’intelligenza dell’amore. La città, questa Roma nostra, è innanzitutto un miracolo di bellezza, di quelle bellezze che sono grandi perché variegate, confuse, contraddittorie, complesse e sofferenti, conquistate come risultato di azioni collettive, di pensieri e immaginari concreti. Di sogni vissuti e poi subito dimenticati a vantaggio di nuovi, più spericolati.

La bellezza di Roma è una cosa seria. Gli autori ci invitano a rispettare questa bellezza, a riprodurla come e dove sia necessaria nella poesia e nel colore e ad opporla alla barbarie della solitudine, della grettezza, dello sfruttamento. Nella prefazione Paolo Berdini cita un importante passo del testo, dove le pratiche di autogoverno del territorio e di autorecupero sono individuate come la massima espressione di amore per la città capace di definire nuova geografia: «Non possiamo più permettere di non considerare la bellezza, convincendoci che può avere un ruolo anche in un territorio che accumula detriti, rovine, manufatti incompiuti ed è capace di utilizzarli per produrre valore.

A partire dal fatto che i territori sono preda del disastro ambientale perché sono lo specchio della diseguaglianza sociale. Sono gli spazi sociali occupati e restituiti a nuova vita che rappresentano proprio la ricerca della bellezza all’interno dello spazio metropolitano, perché sono gli unici a mettere insieme le molteplicità che li costituiscono e a restituirne la complessità».

Questo libro è anche una semplice e fondamentale lezione sull’architettura e di architettura, la disciplina che definisce la nostra traccia nel mondo – non è poca cosa – e descrive le strutture di potere nel territorio, di volta in volta rinegoziate nella direzione di una maggiore o minore democrazia. Per questo gli autori si interrogano con noi, in epoca di acquisti immateriali, di logistica meccanizzata e di scarsità della risorsa primaria del suolo, sull’insensatezza di costruire un ennesimo centro commerciale, già desueto e vecchio prima ancora di essere disegnato: «Cosa realizzare in 784.000 mc, già del tutto legalmente autorizzati, è compito esclusivo di una società derivata da Unicredit. È legittimo che una banca scelga cosa fare in una città in cui aumentano le distanze tra i cittadini e i luoghi della decisione?».

Dobbiamo ad Antonello e Rossella il coraggio di aver scritto su un West misconosciuto, luogo di contenimento e follia, di abbandono e rovina, luogo che ha subito trasformazioni urbane inaccessibili, lontane, ingiuste, dettate dall’arroganza neoliberale: «Qui gli ettari urbanizzati sono la metà di quelli totali e la densità edilizia complessiva è molto bassa. A ovest della città la situazione è ancora più accentuata».

Spesso multipli di case isolate, molte le zone deserte. Frammenti continui di città. Al posto di costruirsi come discorso urbano, si ammassano le case tra loro. Ovunque, chi queste case abita, è in deficit di servizi». Ancora gli autori ci ammoniscono: «Per la finanza e i suoi paradigmi estrattivi abitare non vuol dire avere un tetto, ma abbracciare chi abiterà con un doppio debito». Laddove il potere della proprietà neoliberale, sempre più concentrata e arrogante, si impone e governa, lì mortifica e inficia le scelte pubbliche che, minoritarie e deboli nel concetto e nel corpo, si insediano «vicino i ruderi, il non finito, lasciati da un costruttore con disprezzo e ostentazione proprietaria».

Ci spiegano: «Abbiamo cercato di raccontare un territorio senza dividerlo da chi lo abita. Abitare un territorio non è solo disporre di una casa, questo è il raggiungimento di un diritto. Vuol dire muoversi, fruire e produrre cultura, godere di garanzie sociali, praticare conflitto. La città non è la macchina della crescita». Nuovi diritti e nuove occasioni di bellezza sono ancora da costruire.

 

“Roma, alla conquista del west” verrà presentato a Esc Atelier in occasione del L/Ivre martedì 19 dicembre alle 20.00