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Kurdistan e media italiani: ragioni di una narrazione tossica

Perché qui in Italia quello che accade in Kurdistan viene raccontato così male? Ragioni e interessi alla base delle rappresentazioni mainstream di casa nostra

I media italiani non hanno mai raccontato correttamente la questione curda. PKK, Rojava, YPG/YPJ, restano parole difficilmente reperibili sui giornali di casa nostra. E quando le troviamo, sono fuori contesto o contribuiscono a diffondere informazioni false. Emblematica la recente liberazione della città di Sinjar: un’operazione militare congiunta tra le milizie dell’YPG/YPG, le forze Yazide e i Peshmerga, supportata dagli airstrike americani. Ma la stampa italiana ha attribuito la vittoria alle sole forze del KRG, il Governo Regionale del Kurdistan Iracheno.

Ma chi sono i Peshmerga? Semplificando, sono le forze armate della regione autonoma del Kurdistan iracheno, attualmente governata dal Partito Democratico Curdo e dal loro leader, Mas’ud Barzani.

Barzani è un fedele alleato degli USA – a differenza dei curdi del Rojava – la sua capitale Erbil è il centro della cooperazione internazionale dell’area e sede di numerose imprese internazionali. All’improvviso, dopo l’offensiva di Daesh dello scorso anno, il termine Peshmerga è divenuto sinonimo di curdo nei nostri tg. Poco più di un anno fa, tutti i curdi erano curdi peshmerga nel mainstream italiano, anche quelli che resistevano all’Isis a centinaia di chilometri dal kurdistan iracheno. La vicenda di Sinjar dimostra che le cose non sono cambiate.

Semplice confusione? Può darsi, ma intanto nel più grande portale d’informazione italiano – Repubblica.it – la parola PKK compare, dal 1 giugno 2014 ad oggi, 67 volte; nello stesso lasso di tempo le YPG – le unità di difesa popolare dei curdi del Rojava, quelle, per intenderci, che hanno difeso la città di Kobane – 34 volte; le YPJ, loro corrispettivo femminile, 4 volte. Nello stesso lasso di tempo la parola Peshmerga compare 123 volte, nonostante in quel periodo le truppe di Barzani non fossero coinvolte in operazioni militari di particolare rilievo mediatico. La faccenda diventa ancora più divertente se chiedete al motore di ricerca di trovare tutti gli articoli che contengono assieme le parole Peshmerga e Kobane. Risultato: 40 articoli trovati. Tra questi ultimi alcuni sostengono che siano stati i Peshmerga a difendere la città di Kobane, che si trova sul confine turco-siriano e dista da Erbil più o meno quanto Milano dista da Zagabria. E in mezzo c’è il territorio del Califfato. Un centinaio di peshmerga con alcuni mezzi pesanti hanno partecipato alla liberazione di Kobane. Sono entrati passando dal territorio turco dopo circa un mese dall’inizio dell’assedio. Hanno dato una mano, ma di certo non hanno avuto un ruolo determinante. Chi ha invece sostenuto l’assedio e ottenuto la vittoria sul campo sono state le YPG, ma una ricerca incrociata YPG/Kobane produce, su Repubblica.it, solo 26 risultati.

Le ragioni

È evidente che attorno alla questione curda si sta costruendo negli ultimi anni una vera e propria narrazione tossica. Ma perché? Le ragioni sono varie.

In primo luogo c’è quella che i Wu Ming hanno definito la “cattiva coscienza italiana” nei confronti del PKK. Il rapporto tra l’Italia e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ruota attorno all’autunno del 1998, anno in cui Abdullah Öcalan arriva in Italia e chiede asilo politico al nostro paese. Massimo D’Alema è Presidente del Consiglio, alla guida di un governo di centrosinistra. Il governo italiano, sottoposto a pressioni incrociate dalla Turchia e dalla NATO, si rivela incapace di gestire una situazione così complessa e il 23 dicembre invita il leader curdo ad abbandonare il territorio nazionale. Öcalan fugge a Nairobi, dove verrà catturato dai servizi segreti turchi. Attualmente è detenuto nell’isola-prigione di Imrali, dove da aprile sta scontando l’ennesimo periodo di isolamento. Ironia della sorte, nel 1999 la magistratura italiana gli concesse l’asilo politico.

Cattiva coscienza dicevamo, da cui deriva inevitabilmente una cattiva memoria. Quel rimosso collettivo che interviene quando si rischia di incrinare la narrazione mainstream degli italiani brava gente. La brava gente, si sa, non manda il condannato tra le braccia del boia.

Esiste poi un secondo problema: quello delle fonti, delle notizie e di come vengono trattate. Raccontiamo un aneddoto: il 25 giugno l’Osservatorio Siriano per i diritti umani lancia la notizia di un nuovo attacco dell’ISIS a Kobane. Su twitter, la BBC rilancia la notizia.

Come nel gioco del telefono, prontamente l’ANSA la riprende, scrivendo sul suo sito “L’ISIS riconquista Kobane”. D’altronde, con un po’ di pepe la notizia sui social circola di più, si massimizzano le visite e a fine anno il prezzo della pubblicità sale.

Terzo problema, gli interessi italiani in Turchia. Come mostra questa scheda dell’ICE – l’Istituto per il Commercio Estero – le esportazioni italiane verso Ankara valgono, nel periodo gennaio-agosto del 2015, quasi sette miliardi di Euro e sono in crescita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. A questo bisogna aggiungere il coinvolgimento del governo italiano e dell’ENI nel progetto di gasdotto russo Turkish Stream, che dovrebbe passare proprio per la Turchia. All’ultimo G20 Matteo Renzi ha incontrato Vladimir Putin in un bilaterale. Certo, il recente deteriorarsi delle relazioni tra Ankara e Mosca potrebbe mettere in stand-by il progetto, ma l’interesse italiano resta. C’è poi il problema dei flussi migratori, della cui regolazione la Turchia dovrebbe farsi carico, tramite la costruzione di una serie di campi profughi finanziata dall’UE in cambio di una serie di contropartite economiche e politiche. Un accordo delicato, che non deve essere viziato dall’intromissione di stampa e opinione pubblica: in questa fase tutto serve a Renzi, tranne che aprire uno scontro con il governo di Ankara.