cult

CULT

Kobane, diario di una resistenza

Sabato la presentazione del libro “Kobane, diario di una resistenza” (Ed. Alegre). Il racconto della lotta del Rojava attraverso le parole degli attivisti che si sono recati lì a portare aiuti, solidarietà e complicità. Pubblichiamo l’introduzione del volume.

Appuntamento Sabato 11 luglio alle ore 18.30 presso la Libreria GRIOT – Via di Santa Cecilia 1A, 00153 Roma

Sin dall’inizio della guerra civile che sta riducendo in macerie la Siria e costringendo milioni di persone alla fuga, le forze rivoluzionarie si sono autorganizzate per prendere il controllo della regione a maggioranza curda del nord del Paese, il Rojava. I media occidentali hanno raccontato l’andamento della battaglia contro l’autoproclamatosi Stato Islamico (Isis, chiamato in senso spregiativo daesh in tutto il Medio Oriente) senza mai cercare di spiegare i motivi della loro sollevazione e per cosa stanno lottando. Creare una contronarrazione degli eventi in corso e portare una solidarietà concreta in quei territori è stato il motivo che ha spinto decine di attivisti a far partire una staffetta presente in maniera permanente a Kobane e dintorni. Nella convinzione che senza una presenza sul campo ed una conoscenza reciproca non ci possa essere alcuna solidarietà internazionale.

Dal giugno 2014 abbiamo assistito all’avanzata inarrestabile in Iraq e Siria di daesh, che con la presa di Mosul – la città più importante tuttora sotto il suo controllo – ha nelle mani un enorme potere economico e militare che gli ha permesso di dichiarare la nascita del Califfato. Il gruppo è diventato così una concreta minaccia mondiale anche grazie ad un brand del terrore che ha sbaragliato la concorrenza degli altri gruppi jihadisti. In ogni parte del Mondo i fedeli dell’Islam hanno disconosciuto l’idea di uno Stato Islamico guidato da Al-Baghdadi. In Occidente i mass media hanno raccontato soltanto di un nemico invincibile senza riuscire a fornire alcuna soluzione interpretativa. I governi dal canto loro non sono stati in grado di individuare una valida strategia per la sua sconfitta. L’inazione complice delle grandi potenze sta lasciando al massacro intere popolazioni.

Caduta Mosul è scoppiata l’emergenza umanitaria e il pericolo di genocidio per oltre centomila iracheni della minoranza religiosa ezida, che si sono trovati intrappolati sul Monte Sinjar. Sono stati gli uomini e le donne delle forze di autodifesa dello Ypg/Ypj e del Pkk a salvare le popolazioni ezide ed a fermare l’avanzata di daesh grazie all’apertura di un corridoio umanitario che ha condotto in salvo oltre centomila persone. Sempre gli stessi uomini e donne sono accorsi in difesa di Kobane, venutasi a trovare in una situazione disperata in seguito all’assalto di daesh iniziato il 13 settembre ed arrivato a controllare in ottobre il 90% della città. La Turchia ha reso la situazione ancora più disperata costringendo Kobane in un assedio da ogni lato, mentre forniva sottobanco supporto diretto alle gang del Califfato. Ancora più enigmatico è l’embargo imposto da Barzani e dal suo Governo Regionale del Kurdistan in Iraq.

Kobane fa parte del Rojava, regione del nord della Siria che si è proclamata autonoma sulla base di un nuovo contratto sociale, la “Carta del Rojava”:

Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale.

La stesura della Carta del Rojava rappresenta oggi un modello alternativo di sviluppo sostenibile per le società mediorientali e non solo. Costruito attorno ai quattro pilastri del confederalismo democratico, della centralità del ruolo della donna, dell’autodifesa e dell’economia solidale ed ecologica, il Rojava è un luogo che ha fermato non solo l’avanzata militare di daesh, ma anche ciò che rappresenta, smascherando il sistema di potere globale che ne garantisce la legittimità. La rivoluzione in Rojava rappresenta un punto di svolta cruciale nella questione curda, aperta in Medio Oriente da quasi un secolo. È nel 1920 infatti, con la conclusione del Trattato di Sèvres, che le Potenze vincitrici della Prima guerra mondiale si accordano per la spartizione dell’Impero Ottomano prevedendo la nascita di un Kurdistan indipendente. Tuttavia, la sollevazione nazionalistica dei turchi guidati da Mustafa Kemal e la scoperta del petrolio negli stessi territori, portò ad una ridefinizione dell’assetto politico mediorientale sancito dal Trattato di Losanna del 1923. Il Kurdistan è stato così diviso in 4 Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, alimentando la diaspora di milioni di curdi per sfuggire alla repressione in ciascuno di questi Stati.

Nel 1978 Abdullah Öcalan – chiamato affettuosamente “Apo” (zio) dai curdi e considerato uno dei pensatori politici più importanti e influenti al mondo – fonda il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), un movimento di liberazione nazionale di ispirazione marxista-leninista. Il Pkk ha ridato nuovo vigore alla causa curda intraprendendo un lungo percorso di rinascita dell’identità culturale dei curdi ed una lunga fase di lotta armata in Turchia nella ricerca dell’indipendenza. Sin dal suo arresto, avvenuto in Kenya nel 1999 ad opera delle forze di sicurezza turche con la collaborazione delle intelligence occidentali ed una grave responsabilità dell’Italia e del suo premier Massimo D’Alema (che non concesse lo status di rifugiato politico ad Öcalan quando si trovava in territorio italiano), Apo si trova rinchiuso nell’isola carceraria di Imrali di cui è l’unico prigioniero. Durante il processo e attraverso diversi scritti dal carcere, Öcalan ha apportato una sostanziale revisione della strategia politica del Pkk, chiedendo ai suoi membri di rinunciare alla lotta armata per favorire l’apertura di un processo di pace ed approcciando la strada del “confederalismo democratico”, tracciata dal filosofo dell’“ecologia sociale” Murray Bookchin. È questo oggi il fondamento della Carta del Rojava e della strategia seguita anche dai partiti di riferimento del movimento in Turchia, il Bdp e l’Hdp, e in Siria, il Pyd.

Il Bdp, il Partito della Pace e della Democrazia, è il partito con il quale il movimento si presenta alle elezioni in Turchia nelle zone a maggioranza curda del sud est del Paese ed è nato nel 2008 in seguito alla chiusura del precedente partito a causa dei suoi legami con il Pkk. L’Hdp quest’anno correrà per la prima volta alle elezioni generali in Turchia del 7 giugno. Entrambi i partiti non vogliono essere un’espressione monoetnica dei curdi, ma al contrario rappresentare tutti coloro i quali vogliano sostenere i principi del confederalismo democratico. In Siria il Pyd partecipa alle elezioni democratiche nelle regioni proclamatesi autonome nel gennaio 2014, nel mezzo della guerra civile siriana. Il Rojava è diviso amministrativamente in tre cantoni privi di continuità territoriale. Il più grande, il cantone di Cizire si trova ad est, al confine con la Regione del Kurdistan Iraqeno (KR-I) e la Turchia e conta quasi due milioni di abitanti. Quello centrale è il cantone di Kobane, mentre più a ovest, sempre al nord della Siria sul confine con la Turchia, vi è il cantone di Afrin.

Come associazioni, collettivi, centri sociali e singoli abbiamo sentito la necessità di recarci a Kobane e a Suruç, in territorio turco a pochi metri dal confine, per rendere visibile la nostra solidarietà a chi non si è mai arreso e continua a lottare per la propria autonomia. Se per loro resistere è l’unica scelta possibile di fronte alla minaccia jihadista, per noi significa sostenere una possibilità concreta, una terza via al fascismo islamico e a quello nostrano che si nutre di islamofobia. Significa non fermarsi davanti alle immagini stereotipate che ci raccontano i mass media e cercare di affrontare i problemi in maniera radicale. Se è l’utopia ad aver mosso il nostro cammino, quella che abbiamo incontrato in ogni incontro del viaggio è un’utopia ancora più grande che ci spinge ad essere ancora oggi presenti su questi territori.

Come in tutte le resistenze cruciali della storia del Novecento, Kobane ha saputo parlare non soltanto al popolo curdo, ma al mondo intero. Lo ha fatto contrapponendo alle brutalità delle gang jihadiste tutta l’umanità di un progetto politico estremamente innovativo. Il “confederalismo democratico” ha colto nello Stato nazione e nel nazionalismo il cuore del problema immaginando contemporaneamente un’alternativa radicale e concretamente realizzabile. Ed è proprio dal Medio Oriente, dove il nazionalismo di importazione occidentale ha oppresso un’infinita varietà di culture, religioni, etnie e lingue, che il progetto del “confederalismo” ha saputo affermarsi. Un progetto che parla anche a tutte le democrazie occidentali dove emergono forze reazionarie che si rifiutano di accettare la ricchezza che la molteplicità di un mondo sempre più connesso e globalizzato è in grado di offrire.

In questo scenario ha avuto inizio la nostra staffetta che ha unito attivisti di diverse città, in un rinnovato spirito internazionalista come non succedeva da diversi anni. Abbiamo dato vita ad una pratica di solidarietà e di conoscenza reciproca importante per chi è abituato ad agire localmente nei propri territori, ma a pensare che le soluzioni a problemi come il militarismo, le migrazioni, l’ecologia, la finanza, i fondamentalismi religiosi, il patriarcato debbano essere globali. Per alcuni di noi è stata la prima esperienza del genere, altri avevano già attraversato i movimenti globali di inizio millennio e le carovane in Palestina, in Chiapas, nei Paesi baschi o proprio in Kurdistan. Questa volta abbiamo però scelto di non partire con grandi delegazioni, vista la situazione logistica molto complicata a causa della guerra. Siamo partiti con delle staffette composte da pochissime persone, per rispettare le richieste dei compagni curdi della municipalità di Suruç che ci avrebbero ospitato. Il coordinamento è stato costante con loro anche in Italia, attraverso Uiki Onlus, l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia. Nei nostri viaggi abbiamo cercato di raccontare in prima persona quello che accadeva e dare voce ai veri protagonisti di questa resistenza, partigiani che per noi sono diventati immediatamente fratelli e compagni di cui poterci fidare.

Con le staffette di Rojava Calling siamo entrati più volte nei campi profughi, per supportare il lavoro dei molti volontari e per vedere con i nostri occhi la reale situazione. Abbiamo cercato di dare un aiuto concreto cercando di ascoltare i loro bisogni e di sostenerli con ogni mezzo a disposizione, dal lavoro manuale all’invio di farmaci e personale medico. Abbiamo cercato di sostenere come potevamo l’autogestione che ha permesso la vittoria della resistenza di Kobane. E così siamo partiti da Napoli, Milano, Bologna, Roma, dalle Marche, dal Veneto e dalla Liguria, e ci siamo incontrati per capire come portare avanti un lavoro comune di aiuto e sostegno.

La conoscenza profonda ci ha permesso di avviare la parte più importante della nostra campagna: la costruzione di azioni concrete affinché l’Europa riconosca e sostenga l’autonomia democratica del Rojava, cancelli il Pkk dalle liste del terrorismo internazionale e intraprenda azioni concrete per la liberazione di Abdullah Öcalan dalle carceri turche. Perché pensiamo che dalla sopravvivenza del Rojava passi gran parte delle possibilità di vedere un futuro di pace, libertà e democrazia in Medio Oriente.

Da Kobane e dai campi profughi, siamo tornati in Italia per raccontare quanto può fare una comunità indipendente e determinata, e per tenere insieme la voce di chi vuole sostenere questa battaglia attraverso azioni di solidarietà e cooperazione. È una scommessa capace di aprire una relazione vera fra noi e il popolo curdo. Perché dove per ottusità e tatticismi politici non arrivano le istituzioni ed i governi vogliamo provare ad agire noi, dal basso, liberi da burocrazie nocive. Liberi da scuse.

Da questa scommessa nasce questo libro. Un diario di viaggio collettivo raccontato in prima persona plurale dalle decine di attivisti che si sono succeduti nelle staffette. Un racconto corale dei veri protagonisti di questa straordinaria resistenza, guardando con i propri occhi e senza tanti giri di parole.