MONDO

Kobane: Bring the war home

Ogni volta che si scrive di Kobane si teme di arrivare troppo tardi, che il tempo della città nel frattempo sia scaduto. Ma la città resiste ancora.

Articolo tratto da connessioniprecarie.org

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Un motivo è sicuramente l’aumento di raid aerei della «Coalizione anti-Isis» negli ultimi giorni. Ma il fattore determinante continua a essere la feroce resistenza delle YPG/YPJ che, pur subendo e perdendo tanto e senza rinforzi da quasi un mese, non hanno smesso di combattere l’avanzata jihadista. Notizie degli ultimi due giorni parlano di un blocco parziale dell’avanzata dell’ISIS, che controllerebbe il 15-20% (altri dicono un terzo) della città. Le YPG/YPJ riportano scontri anche in un altro villaggio del cantone, Dehma. La Turchia rimane ferma nel suo rifiuto di stabilire un corridoio umanitario-militare che, attraversando il suo confine, permetterebbe ai rinforzi (anche eventualmente, secondo alcune fonti, ai peshmerga iracheni) di raggiungere la cittadina assediata, insieme agli aiuti umanitari. Mercoledì la polizia turca ha arrestato 5 membri del PYD vicino al confine, accusandoli di appartenere a un’organizzazione terrorista. Diverse dichiarazioni ufficiali turche hanno sostenuto la necessità che Kobane non cada in mano «di gruppi terroristi». Il plurale è chiaramente riferito alle YPJ/YPG, indicando un’equidistanza politicamente inaccettabile, ma per niente sorprendente. Sembra proprio che l’autodeterminazione di Rojava faccia paura quanto, se non più dell’avanzata dello Stato Islamico.

L’appello di Salih Muslim (presidente del PYD) del 6 ottobre non è però caduto nel vuoto. Le comunità curde di mezzo mondo si sono mobilitate e in Turchia è esplosa una vera e propria rivolta. Non solo nelle zone curde, manifestazioni e scontri stanno avvenendo anche a Istanbul e Ankara e come pure in altre città, con la partecipazione e il sostegno di pezzi consistenti della sinistra radicale turca e dei movimenti studenteschi. Gli scontri (che in più di un’occasione sono stati scontri a fuoco) hanno visto già almeno 30 morti (compresi membri della polizia turca). Il livello dello scontro e il numero di morti non sono dovuti solo alla risposta brutale della polizia turca (immortalata in più di un caso mentre scandisce slogan pro-ISIS durante le sue azioni repressive), ma anche agli scontri (anche qui armati) con squadracce islamiste (sia curde che turche) e nazionaliste. Di fronte all’intensità del conflitto in Turchia, le decine e decine di manifestazioni, le occupazioni (come quella del parlamento olandese) e i blocchi realizzati dalle comunità curde in Europa e i primi cenni di una risposta armata del PKK, viene in mente uno slogan, una tattica per niente nuova, ma evidentemente sempre efficace: Bring the war home.

Le forze curde del KCK, vedendo le YPG/YPJ assediate militarmente e mediaticamente a Kobane, e vedendo gli altri cantoni di Rojava a rischio, hanno voluto portare nei quartieri e nelle città turche la realtà dell’assedio di Kobane, mettendo a nudo le contraddizioni dello Stato turco e della «Nuova Turchia» di Erdogan. Quest’ultimo ha voluto isolare e far morire le rivendicazioni di Rojava nella Kobane assediata dallo Stato Islamico, e invece se le è trovate sotto casa. Le divisioni che emergono in questi scontri non sono assolutamente di natura etnica, tra turchi e curdi, ma politica, tra un movimento di massa multietnico, incarnato dall’HDP e da altre realtà nate o rafforzate dall’esperienza di Gezi Park – che sostiene la lotta a Kobane scendendo in strada, traducendo notizie, facendo appelli, organizzando manifestazioni, creando comitati di sostegno – e una destra reazionaria, in cui convergono interessi islamisti, nazionalisti e neoliberisti, che purtroppo ha anche un discreto sostegno popolare (come dimostrato dalle ultime elezioni). Entrambi i protagonisti di questo scontro esibiscono caratteri globali: sia il movimento di massa sia il governo, infatti, non esprimono solamente una specificità turca, ma evidenziano caratteri che emergono con intensità diverse in ogni scontro politico tra i movimenti contemporanei e i governi neoliberali siano essi di destra o di sinistra. Le mobilitazioni in Europa hanno perciò assunto forme più pacifiche o legate alla disobbedienza civile, riuscendo però nell’intento di diffondere la notizia e la rabbia dell’assedio e della resistenza in atto. Di fronte queste manifestazioni si può dire che qualcosa si sta muovendo al di qua di Kobane.

Purtroppo sembra però ancora improbabile che le YPG/YPJ riescano a impedire la caduta di Kobane. Detto questo, si può ribadire, senza rischio di cadere in romanticismi, che la resistenza armata di Kobane non è un gesto inutile, disperato o vano, ma carico di un significato globale: storico, politico e materiale. Ogni giorno, ogni ora di resistenza, offre speranza ai cantoni liberi di Rojava, ma anche a tutte le forze laiche, socialiste e rivoluzionarie della regione, e non solo. Lo Stato Islamico ha dichiarato guerra a ogni forma di autodeterminazione e di pluralismo, e le YPG/YPJ hanno risposto alla guerra con la guerra, dimostrando che anche chi combatte e muore per il «qui e ora» può resistere a chi mira al paradiso, che è possibile vivere e lottare insieme nonostante differenze etniche e religiose. Un appello diffuso ieri dalla Rete Kurdistan faceva intuire le potenzialità di una coalizione popolare internazionale contro ISIS, che trova espressione nella rivoluzione di Rojava, la resistenza di Kobane e tutte le realtà, a livello transnazionale, che li sostengono e che si riconoscono in essi. Ciò significa che il contrasto all’Isis non è il monopolio di una coalizione tra Stati che improvvisamente si sono accorti che la civiltà è in pericolo. Soprattutto le combattenti di Rojava rendono evidente che i barbari che loro combattono non sono proprio gli stessi affrontati da una coalizione che ieri per salvaguardare i suoi equilibri interni ha dichiarato Kobane un obiettivo non strategico. Per i movimenti globali, invece, Kobane è strategica: non per la posizione che occupa nel teatro di guerra, ma per ciò che la tiene in vita e la muove, per ciò che fa esistere fuori Kobane, per il «qui e ora» che ci chiama a vivere.

Il processo politico avviato a Rojava, prima ancora di diventare oggetto di discussione e di confronto (cosa auspicabile ma al momento resa difficile da altre contingenze), dev’essere difeso. Le mobilitazioni che si stanno moltiplicando in questi giorni in Europa sono importanti per il qui e ora e guardando in avanti. È importante che queste mobilitazioni si coordinino con le comunità curde già presenti e attive nei territori, seguano le indicazioni politiche delle YPG/YPJ, e si mettano in contatto con i comitati locali turchi (come quelli del HDP) che stanno già organizzando campagne di sostegno materiale, politico e umanitario. La necessità di un corridoio umanitario/militare a Kobane è urgentissima, ha senso diffonderla e portarla nelle piazze dove si dà voce e forma al sostegno per Kobane.