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MOVIMENTO

Il gesto del terrorista

Siamo nel 1980 e Fachinelli si confronta col tema dell’azione terroristica. Senza moralismi di sorta, definisce la sua gestualità interrogandone il rapporto con i mass media. Chi detiene il potere tra il “grande animale fabbricanotizie” e l’eroe del terrore rivoluzionario? Si profila “un’alleanza inconsapevole”, che finisce, però, per marginalizzare lo stesso eroismo rivoluzionario, per rovesciarne la spettacolarità in un vuoto di referenza politica

Le interpretazioni, le spiegazioni, le condanne, sono commenti sovrapposti a un testo. Glosse e scolii che lo ricoprono. O esorcismi. Ma guardiamolo nel suo svolgimento ormai definito. Consideriamolo nel suo fare.

 

Il terrorismo è gestuale. Una preparazione oscura, una latenza. E d’improvviso una breve serie di gesti, sempre gli stessi. In una via, davanti a un box, di rado in un interno, alcuni spari.

 

Chi spara non ha viso, due tre o più giovani senza viso. O con un viso intercambiabile in identikit elementari. Dopo i loro spari, un corpo cade, o si affloscia. O più corpi. I giovani scompaiono. Da quel corpo esce sangue, che coagula sull’asfalto, sui sedili delle macchine. Rimane in macchie scure facilmente lavate ed eliminate.

Il corpo è già stato eliminato. Goffo, rattrappito, come un sacco impiastricciato. Non si vede più. Non se ne parla più. Si parla dei bossoli ritrovati, delle armi usate. Col gesso si tracciano per terra traiettorie che vengono fotografate. Il corpo è sostituito dalle armi che lo hanno ucciso. Queste armi, a loro volta, sostituiscono gli uccisori senza viso. Esse restano in scena, mentre gli uomini spariscono. Come in certi sogni, dove il coltello è l’unico accenno al conflitto in atto.

Se le armi non ci sono, appaiono in primo piano altri indizi. L’auto, la motoretta. Insomma gli oggetti che contornano l’azione. Come in certi sogni, dove la carta da macellaio, per esempio, è l’unico accenno alla violenza presente.

 

Il gesto è stato imprevisto, rapido, fugace. Ma reale.

 

A questo punto non ci aiutano più i sogni. È piuttosto un gesto di chi preda. Di chi piomba d’improvviso, strappa, scompare. Una delle prime azioni venne accompagnata da una foto con su scritto: mordi e fuggi. Adesso, vi è un corpo “abbattuto”. È stato “abbattuto” un nemico, secondo i giovani senza viso. Ma “abbattuto” è l’uccello o la lepre nella caccia. Dunque il gesto del terrorista è anche quello predatorio del cacciatore. Sulla vittima inerme, ignara, arriva il fuoco dell’occhio che spara.

Abbattuto” è però anche il bue – da parte di colui che “esegue” in serie l’uccisione degli animali che mangiamo. Questo avviene in un luogo che alcune lingue chiamano, semplicemente, abattoir. Luogo dove si abbatte. Si traduce in italiano mattatoio, luogo dove si uccide, con senso anche di “immolare”. Per la frequenza delle uccisioni, le strade di questo paese si trasformano in mattatoi, in abbattitoi. In quel momento, le vittime hanno forse gli occhi di quegli animali chiusi nei camion che incrociamo, a volte, sulle autostrade.

Il terrorista è tranquillo, probabilmente. Si vede in atto rivoluzionario, si vive come soldato della guerra rivoluzionaria. Non vede la sua viltà di cacciatore, né la sua indifferenza di macellatore. Solo ogni tanto, forse, nella ripetizione del suo gesto, avverte un che di meccanico. Ma questo gesto è solo l’antefatto, il prologo. È il richiamo, non tutta l’azione. Solo il momento sporgente di essa.

 

Il secondo gesto, essenziale, è la comunicazione al giornale, alla radio, all’agenzia di notizie.

 

Il terrorista deve dire chi è stato a uccidere, quale formazione o gruppo combattente. Altrimenti il suo uccidere si confonde con l’uccidere di altri, diventa un uccidere senza nome, peggio ancora, un uccidere senza notizia. A questo punto il terrorista diventa, necessariamente, uno che fornisce notizie. Il gesto di sparare è la prima parte di una notizia; ancora meglio, è la prima parte di qualcosa che fin dall’inizio è un evento-notizia.

 

 

Negli schemi di una comunicazione ordinata, l’evento è distinto dal suo annuncio. Il loro rapporto non è prestabilito. Rimane in una certa misura casuale e imprevisto. La caduta dell’impero romano non fu notificata in Cina. Sbarcando in Messico, Cortés venne preso, si dice, per il dio Serpente Piumato tornato a riprendere possesso del suo regno. Qui vediamo l’indipendenza dell’evento dal suo annuncio. Ma quest’indipendenza entra in crisi nel momento in cui si sviluppano le grandi macchine per la distribuzione delle notizie. I giornali, la radio, la televisione, diffondono e consumano incessantemente notizie.

Essi vivono dunque di eventi, ne hanno bisogno come della loro materia prima. Ecco allora sorgere la produzione di eventi in funzione della notizia. Si creano eventi-notizia, facsimili dotati di una vita intermedia, multiforme, difficile da afferrare e da capire. Sono trascinanti e insieme elusivi. Appassionano e annoiano. Sono a portata di mano e distanti. Caldissimi e subito freddi.

 

È qui, su questa punta avanzata dell’evento-notizia, che si stabilisce il rapporto tra terroristi e mass media.

 

I terroristi non hanno avuto probabilmente il tempo di leggere Marx, o Lenin. Ma con la stessa sicurezza del bambino che gira la manopola del televisore per cercare il suo programma preferito, essi hanno trovato il punto sensibile dei media. A occhi chiusi, per una sorta di inquietante affinità di fondo, essi ne hanno individuato perfettamente la situazione.

E hanno cominciato a nutrire di eventi il grande animale che ne ha bisogno. Anzi, essi gli forniscono il suo cibo prediletto: vale a dire, cattive notizie. Le sole o quasi che, in questo stato del mondo, e forse da sempre, risultano eccitanti e coinvolgenti. I terroristi diventano così, senza saperlo, specialisti di un tipo particolare di cattive notizie. Tra le più richieste e desiderate oggi in questo paese. A una società immobile e in apparenza unificata, forniscono l’illusione di individui sfuggenti e inafferrabili. Agli impotenti parlano del potere supremo, quello sulla morte. A chi è nelle maglie della rete industriale, mostrano una Vita nella Giungla. Alla mediocrità della pacificazione universale contrappongono l’eroismo della guerra.

Così si svolge l’alleanza, inconsapevole, tra terroristi e media. Un invisibile cordone ombelicale li congiunge. I terroristi crescono sulla scena dei media, diventando protagonisti assoluti. L’evacuazione del resto è presto fatta. Rimane il deserto, in cui campeggiano. E quindi essi possono pensare che il grande animale fabbricanotizie si nutra esclusivamente dei loro eventi. Possono pensare di averlo ridotto a questo cibo. E con esso, tutti gli “utenti” dei media.

 

C’è qui come un agire da vampiri. Anche se non si sa bene, alla fine, chi sia Dracula, o da che parte stia.

 

I terroristi infatti possono pensare di essere totalmente indipendenti e attivi. Il sistema di potere è troppo debole per sterminarli fisicamente, come è successo altrove. E non può chiudere i canali di notizie, pena la perdita dei suoi principi normativi. Il bandolo sembra dunque nelle mani dei terroristi.

Ma proprio qui s’insinua la possibilità di un altro “scenario”. La parola è precisa. Uno scenario che, aggiunto alle difficoltà interne ed esterne, forse determinerà la loro fine. Il grande animale fabbricanotizie non è passivo. Non si nutre esclusivamente del cibo cruento che i terroristi gli procurano.

A poco a poco se ne sazia. Già i “semplici” ferimenti “non fanno più notizia”. E perciò tendono a sparire. Di più: occorre sempre qualcosa di più forte, di più incisivo. La spettacolarità del richiamo terroristico è costretta a crescere, affannosamente. A complicarsi.

Essa svela la tendenza del grande animale a volgere la testa altrove, verso altre classi di notizie, verso disastri nuovi e diversi. Gli occorrono notizie fresche per risvegliare un’attenzione esausta. A quel punto, i terroristi scopriranno la loro marginalità, rispetto alla centralità di scena prima ottenuta. Si accorgeranno di essere dipendenti dall’animale, di cui si credevano padroni. Non verranno più cercati, ma “derubricati”. Come dive del cinema abbandonate, scopriranno che la loro stessa morte è la loro ultima notizia.

Quaderni piacentini, n. 74, aprile 1980, pp. 13-15.