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“From jungle to city”: una mostra fotografica racconta il campo di Calais

Vicino al porto di Calais, in Francia, nel cuore della “democratica” Europa, esiste, da dieci anni, un mondo parallelo: un accampamento, dove rifugiati dell’Africa e del Medioriente attendono l’occasione di attraversare la Manica e di raggiungere il Regno Unito.

Tollerato dall’Europa, il campo, chiamato “la Giungla”, un intrico di tende, container, camper e capanne improvvisate, è stato sottoposto periodicamente a sgomberi, l’ultimo dei quali il 29 febbraio del 2016. Battaglioni di poliziotti, in tenuta antisommossa, hanno espulso di forza oltre tremilaquattrocento persone della parte sud della bidonville. Bulldozer e ruspe hanno avuto ragione, in poche ore, di una umanità disperata e senza pace, che preservava scampoli di dignità tra il fango e la melma di una prigione a cielo aperto. “La Giungla” è il più grande campo di migranti d’Europa (fino allo scorso febbraio, secondo le ong, ospitava oltre 6000 persone, di cui almeno 600 donne e trecento minori) ed anche il più militarizzato. I binari del treno, le autostrade, i camminamenti, i ponti, le stradine tutti gli accessi sono bloccati e protetti da barriere, reti e cancellate invalicabili simili a quelle che si ergono a Melilla e Ceuta. Le condizioni climatiche sono spesso avverse, la violenza sottotraccia delle autorità e della popolazione locali è costante: La vita nel campo è una faticosa e testarda sopravvivenza.

Il fotografo olandese Henk Wildshut ha seguito il crescente afflusso di migranti, arrivati a Calais dal 2005. Nel corso degli anni, ha visitato, con sempre maggiore frequenza, “la Giungla” e l’ha vista trasformarsi in una città distopica, cresciuta, smisurata, sul terreno infetto di una vecchia discarica in disuso. A differenza della maggior parte dei fotografi, però, Wildshut ha deliberatamente evitato di produrre immagini che raccontino in modo straziante i rifugiati, le loro storie personali. La sua mostra, in corso ad Amsterdam, fino al 5 giugno, presso il Museo della Fotografia (Foam), dal titolo “Calais – From jungle to City”, racconta, alternando foto e video, il tentativo dell’uomo, esposto a condizioni intollerabili, di ricreare un’esistenza “normale”. Le tracce che i migranti lasciano nel paesaggio, lo marchiano, rendendo visibili coloro che ci ostiniamo a considerare invisibili, accettandoli solo come capri espiatori del nostro benessere, frustrato da una crisi senza fine.

La poetica di Wildshut rende giustizia alla complessità del problema immigrazione, attraverso un metodo d’indagine dialettico, dove interagiscono visibilità ed invisibilità, riconoscimento e rifiuto, temporaneo e strutturale, securitario e anarchico, locale ed internazionale, politica e realtà sociale. I vari “campi” che si succedono nel corso del tempo, trasformando il corpo dell’accampamento, come fosse un’animale proteiforme ed impossibile, con le sue case precarie, i suoi ristoranti di plastica, le sue chiese di cartone, le sue moschee di tela, le sue librerie di lamiera, i suoi negozi di legno grezzo, sono visti da Wildshut con occhio non solo documentario, ma anche poetico e suggestivo. La sua è una vista contemplativa, che distanzia le persone e le situazioni fotografate, conferendo un equilibrio ed una qualità icastica alle immagini, che spingono lo spettatore ad una presa di coscienza. I protagonisti mantengono un contegno che si limita a suggerire, a proporre un’idea, quasi disincarnati. Inavvertito, il punto di vista offerto è un punto di vista sociale. Con lo sguardo imposto al racconto fotografico, si rendono evidenti quei tratti che rientrano nel campo d’azione della società. L’arte di Wildshut diventa un colloquio con lo spettatore che viene indotto a giustificare o a rifiutare le condizioni mostrate, in base, diremmo, alla “classe” di appartenenza. Ne risulta una mostra fotografica, in cui ogni scatto non è solo il contenuto di un dramma, ma una tesi politica ben riconoscibile.

Le foto della mostra

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I video presenti, proiettati su tre schermi, in sequenza diacronica e sincronica, permettono di cogliere gli elementi della rappresentazione in maniera distinta e non come parti di un tutto. Ognuno ha un significato a sé, che non lascia allo spettatore la possibilità di una fruizione passiva delle immagini, ma ne sollecita una presa diretta. Chi guarda è inserito nella vita del campo (una partita di cricket improvvisata; un muezzin, avvolto nella coperta, che cantilena al megafono l’invito alla preghiera; quattro giovani impegnati a giocare a carte, accovacciati sui tappeti; l’assemblamento collettivo di un rifugio di fortuna; interni di negozi impensabili, fatiscenti e maniacalmente ordinati), in un esperimento che ha una funzione didattica, finalizzata all’apprendimento della “situazione” ed allo sviluppo di un pensiero critico.

I video sfruttano la capacità astrattiva del pubblico, permettendogli di ricostruire mentalmente un percorso di sopraffazione e sofferenza che gli è estraneo solo apparentemente. Più che i sensi è la coscienza ad essere scossa. Il coinvolgimento tra gli sconosciuti rappresentati e lo spettatore esiste già a monte: si tratta solo di farlo uscire dalla superficialità di una relazione patetica, nel cui ambito esclusivo i media rilanciano il dramma dei migranti, che viene così depotenziato nell’ assuefazione emotiva di un rapporto puramente esteriore, superficiale, estemporaneo, non intellegibile ed inibente l’occasione di azioni comuni, con un pubblico inevitabilmente educato a percepirsi come altro e superiore. Significativa appare quindi l’ iniziativa, parallela alla mostra, che si tiene a Kattenburgerstraat, nella parte orientale del centro di Amsterdam, di fronte alle mura dei vecchi cantieri dell’Ammiragliato, che ospitano, fino alla fine di Giugno, la presidenza olandese di turno della UE. Qui, dove il muro fisico richiama il muro securitario costruito da un’Europa fuori dalla Storia, sono state innalzate delle impalcature di legno, sulle quali campeggiano alcuni scatti di grande formato di Wildshut, presenti anche al Foam. Le foto sono accompagnate da alcune installazioni, che pongono l’ attenzione sulla situazione dei rifugiati e dei migranti senza documenti, che, nel 2013, hanno toccato, in Olanda, la quota di 35.000. Si tratta di persone alle quali è stato negato il diritto all’ assistenza sociale, all’ educazione, alla casa, al lavoro, persino a quello volontario, dal momento che hanno compiuto 18 anni. Invisibili, dei quali qualcuno però non vuole ignorare la presenza.

La Limbo Embassy (l’Ambasciata del Limbo, letteralmente) si occupa di loro. Fondata da persone, che si trovano “nel limbo” di una condizione che le vede impossibilitate a tornare nel Paese di origine, a causa di documenti di viaggio non validi o per ragioni di sicurezza, e non accettati nel Paese di approdo, l’Ambasciata vuole mettere sotto i riflettori dei media e della società olandesi la condizione di vita sospesa degli ambasciatori e di tutti gli altri migranti nelle medesime condizioni. Sul sito dell’ Ambasciata (inlimboembassy.org) è possibile firmare la petizione (“Get your voice heard!”), per permettere a questi cittadini senza patria di divenire cittadini olandesi, con tutti i diritti. Tre cassette della posta, in legno, si trovano sul marciapiede della Kattenburgerstraat. Chi si trovasse a passare di lì, può compilare ed imbucare uno dei facsimili, presenti nel cassetto di ogni recipiente. Le nostre frontiere uccidono. Dimenticarlo, ci rende complici.

Le foto scattate a Kattenbugerstraat, durante la manifestazione parallela alla mostra

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