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Febbre a 90 – 10a puntata

Manovre di palazzo sul calcio: debiti, far play finanziario e (improbabili) sceicchi.

La seconda giornata di ritorno sorride finalmente alla Juventus che, unica tra le prime della classe a conquistare la vittoria (rotondo 4-0 sull’Udinese) , aumenta il vantaggio di 2 punti netti su tutte le inseguitrici, dirette e meno dirette, e si riprende parte di quel cospicuo vantaggio accumulato nel 2012 e quasi dilapidato con l’inizio del 2013, dopo lo shock casalingo contro la Sampdoria e il brodino in terra emiliana sotto forma di punticino strappato con le unghie a un Parma che in versione casalinga risulta essere l’unica squadra imbattuta del campionato.

Napoli e Lazio, dopo le scintille post capodanno, compiono il loro primo mezzo passo falso del 2013, andando ad impattare rispettivamente sui campi di Fiorentina e Palermo partite che avrebbero potuto tranquillamente portare a casa, vista la consistenza e il momento negativo delle avversarie.

Durante la settimana, la serie A era chiamata all’elezione dei suoi più importanti organi di rappresentanza. Dopo alcuni mesi di grandissime tensioni tra i vari club, venerdì scorso è arrivato il redde rationem, che ha visto un esito tra i più traumatici che si potessero immaginare. La rielezione di Beretta, sostenuto dai club medio piccoli e da Milan, Lazio e Napoli ha di fatto sancito una spaccatura tra i grandi club italiani, con Juventus, Inter, Roma e Fiorentina che per la prima volta si trovano per loro volontà senza alcuna rappresentanza negli organi federali, una rinuncia polemica che non mancherà di generare il solito vortice di veleni incrociati e che finirà per influenzare negativamente l’andamento del campionato di casa nostra e forse anche il cammino delle superstiti in Europa.

I motivi di un muro contro muro così traumatico, la cui escalation ha causato la travagliatissima riconferma del presidente dimissionario, sono i soliti, niente altro che questioni di egemonia e di modalità di spartizione delle risorse economiche a disposizione del movimento calcistico nostrano. In altre parole niente di nuovo sotto il sole, nonostante i proclami delle due parti in causa tentino di portare l’oggetto del contendere su un piano dialettico che riguarda la morale e i massimi sistemi: il rinnovamento contro la restaurazione, i poteri forti contro i deboli e indifesi e così via accusandosi l’un l’altro.

In realtà come detto stiamo parlando del solito sporco mucchio di soldi: tutto comincia nel 2011, quando la Lega Calcio impone il ritorno alla contrattazione collettiva per quanto riguarda i diritti TV. La percentuale imposta del 40% a favore della collettività ha di fatto abbattuto una delle fonti maggiori di ricavo per i cosiddetti top club, quelli con a disposizione il maggior numero di tifosi e quindi con più numero di contratti TV (si tratti di abbonamenti o dell’acquisto di singole partite).

Un metodo da sempre fortemente ostacolato da tutte quelle società che nel corso degli anni di contrattazione per singola squadra, denunciavano la forbice sempre maggiore tra loro e i club con più possibilità finanziarie. Nel rivendicare comunque la loro importanza all’interno del movimento calcistico italiano (e a ragione, senza i club medio piccoli, il campionato a 20 squadre si ridurrebbe a uno scontro diretto tra le tre “strisciate” più un altro paio di team, non di più), queste piccole e medie società sono per una volta riuscite a creare un fronte comune e di fatto a imporre la loro volontà. Un fronte sapientemente capeggiato da Lotito, lo strano paladino del “Fair Play finanziario” di casa nostra, che in pochi anni è passato da personaggio più odiato nei corridoi della Lega serie A a “stratega” capace di condurre finalmente a vittoria le istanze delle piccole e medie realtà della nostra massima serie.

Ma tra i solchi di questa battaglia, si intravede anche il forte ruolo di controllo che le banche stanno cercando di esercitare su una delle fonti di perdita maggiori dei loro bilanci, dopo quelle legate alle bolle edilizie e alla conseguente crisi finanziaria dei debiti sovrani di gran parte degli stati europei. Le iniezioni di robuste linee di credito verso i top club italiani, pratica comune per il primo decennio del XXI secolo, hanno finito per creare veri e propri buchi neri finanziari che di fatto hanno ridotto il calcio italiano a non essere più un’industria autosufficiente

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Le società che più soffrono di questa situazione sono proprio quelle che da venerdì sera si ritrovano in minoranza e senza rappresentanza in Lega: squadre come Inter, Juventus, Roma e Fiorentina, che per sopravvivere a certi livelli devono per forza di cose andare al di sopra delle loro possibilità e quindi rimanere legati all’ombrello bancario per evitare il fallimento.

Tutte le altre, quelle che stanno tentando la strada di un ridimensionamento forzato che passa per cessioni eccellenti e per campagne acquisti che dipendono esclusivamente dalle cessioni, anche per rientrare all’interno della scure del Fair Play finanziario, dal 2015 pienamente operativo e che imporrà alle squadre iscritte alle competizioni Uefa una serie di paletti finanziari molto rigidi, hanno trovato una sponda nei club medio piccoli che dal canto loro, pur non avendo attualmente velleità europee, vivono giustamente nel terrore, di finire nelle mani di istituti bancari senza scrupoli.

Inutile dire come, in questo classico gioco di potere, le banche siano più interessate a far pesare maggiormente gli interessi delle loro debitrici che quello delle altre, di tutte le società che vivono in autofinanziamento o stanno stringendo la cinghia per tentare di farlo prima che sia troppo tardi.

Che cosa accadrà lo scopriremo soltanto tra un paio di anni: il calcio italiano, almeno a parole, è sempre sul punto di cambiare pagina, sottoforma di interventi della politica che permettano ai club di accrescere le fonti di ricavo e conseguentemente di elevare la propria competitività in ambito internazionale, dopo questi ultimi anni di declino apparentemente inesorabile.

Il problema è che anche altrove non si vede come questo obiettivo possa essere raggiunto senza un accordo che possa permettere alle protagoniste del calcio europeo di competere in un regime di pari opportunità: l’esperimento in tal senso rappresentato dal fair play finanziario voluto da Michel Platini, sta vivendo uno dei momenti più delicati da quando è diventato legge per la Uefa. L’accordo di sponsorizzazione chiuso dal PSG con un’azienda per la promozione del turismo del Qatar per l’incredibile somma di 700 milioni di euro in 4 anni, di fatto permette alla squadra parigina di rientrare nei paletti del FPF pur potendo permettersi campagne acquisti da 200 milioni di euro e contratti ai singoli giocatori da 10 milioni annui netti in su.

Il PSG, squadra acquistata qualche anno fa da uno sceicco del Qatar che guarda caso è anche uno dei principali finanziatori dell’azienda di turismo che ha chiuso l’accordo con la sua squadra, sta definitivamente cambiando le coordinate del calcio europeo, sulla stessa strada tracciata da Berlusconi negli anni ’90 quando coi suoi elicotteri portava alla corte dei vari Sacchi, Capello e Ancelotti fior di campioni strappati alla concorrenza a suon di miliardi di lire prima e di milioni di euro poi, drogando di fatto il mercato e portando alle estreme conseguenze un movimento che, ora che le banche hanno fatto dietro front e che l’imperativo è diventato quello di rientrare del debito per non fallire, fa fatica a guardare all’orizzonte se non attenendosi a un piano di ridimensionamento robusto come quello dello stesso Milan.

In questo calcio sempre più squilibrato, dove anche le più importanti società del panorama spagnolo, che in questi ultimi anni ha spadroneggiato in Europa e nel mondo, stanno vedendo i rubinetti finanziari chiudere sempre più il flusso, dopo una crisi letteralmente devastante per la penisola iberica (anche a causa dei massicci piani statali di salvataggio di queste banche super esposte nel movimento calcistico), e che per il momento possono restare a galla solo grazie al possesso e allo sfruttamento di un impianto di proprietà, l’arrivo prepotente dei capitali medio orientali e delle ex repubbliche sovietiche sta accelerando il cammino del calcio verso il regolamento di conti finale.

La Uefa dovrà essere arbitro imparziale ma anche efficace del calcio europeo, il rischio è quello (come già sta accadendo) che un domani le aggressive economie dell’ex Unione sovietica, del medio ed estremo oriente e quelle sempre più in crescita del sud America ridimensionino definitivamente il calcio europeo, un panorama che tra banche sull’orlo del baratro e rischio di fuga dei capitali a medio lungo termine, rischia di non vedere la luce del nuovo decennio.