MONDO

Effetto Gezi

La rivolta ha investito tutta la società turca con conseguenze ancora imprevedibili.

Curdi e turchi insieme contro la violenza della polizia e per la democrazia, mentre il paese fa i conti con la propria memoria.

Mentre l’Egitto s’infiamma, la Turchia cova le sue braci che ardono alimentate dal desiderio di una vera democrazia e dalla quale partono scintille che non vanno perse di vista. Una di queste è scoccata venerdì 28 giugno a Lice, cittadina del Kurdistan turco. Nel corso di una manifestazione civile contro l’espansione di basi militari, l’esercito spara sui dimostranti allo scopo di «disperdere» la folla e uccide un ragazzo di 18 anni.

Normale amministrazione per quello che è un paese di basse aspettative democratiche come la Turchia, uno di quegli eventi destinati solamente a entrare nel novero delle innumerevoli ferite sul corpo del popolo curdo e a suscitare poche reazioni nell’opinione pubblica turca, tradizionalmente, con rare eccezioni, poco sensibile alle tragedie subite dalle minoranze.

Ma da Gezi Park in poi qualcosa è cambiato. Nei giorni successivi, in vari luoghi della Turchia, curdi e turchi sono scesi in piazza per protestare a centinaia di migliaia contro questo crimine. A Istanbul insieme si sono presi pallottole di gomma e manganellate, insieme hanno chiesto giustizia per il diciottenne di Lice e il ragazzo di Ankara, la prima vittima della rivolta turca. A Diyarbakir i manifestanti esponevano cartelli che ironicamente davano il bentornato ai «toma», i cannoni ad acqua dislocati dal Kurdistan a Istanbul in occasione di Gezi Park, poco prima di essere dispersi con la consueta razione di lacrimogeni e, appunto, idranti. Curdi e turchi insieme si sono fatti arrestare a decine. Un evento inedito, avvenuto con incredibile spontaneità, e a notarlo sono stati sopratutto i cittadini turchi. Qualcosa che sembra collocarsi dentro la necessità di una democrazia che non usi due pesi e due misure, che valga per tutti, frutto maturo degli alberi salvati di Gezi Park.

Una possibile complicazione per l’AKP di Erdogan, estremamente impegnato a risultare il risolutore unico del problema curdo, che non può che vedere con preoccupazione questa nuova saldatura e mentre cerca di giustificare goffamente l’operato dei militari a Lice, si affretta anche a intimare ai politici dell’opposizione curda di non soffiare sul fuoco della protesta, per non inficiare il processo di pace. Il BDP, Partito curdo di pace e democrazia presente in parlamento, sa di doversi muovere con cautela, quindi contiene la protesta nelle piazze ma contemporaneamente chiede con forza una commissione parlamentare d’inchiesta su quanto avvenuto a Lice.

Allo stesso tempo assume una rilevanza particolare il 20° anniversario della strage di Sivas, avvenuta il 2 luglio 1993 nel cuore dell’Anatolia, quando a un gruppo di fondamentalisti islamici venne incredibilmente permesso di attaccare un festival di cultura Alevi, minoranza islamica progressista. Il commando tenne per un giorno intero sotto assedio l’hotel sede dell’iniziativa e infine gli diede fuoco, causando la morte di 35 intellettuali quasi tutti aleviti. Il processo relativo è finito in prescrizione l’anno scorso. Un evento poco conosciuto al di fuori della Turchia e la cui memoria in questi giorni sta uscendo dalla cerchia ristretta della minoranza alevita fino a diventare, nella sua inaudita e indisturbata violenza, finalmente oggetto di discussione.

Un ulteriore segnale che la Turchia sta cambiando e che deve cambiare ancora, ma non per merito di Erdogan – come l’ AKP vorrebbe far credere. Di sicuro questo governo non è peggiore di quelli che lo hanno preceduto, ma è altrettanto sicuro che non è un governo all’altezza dell’idea di democrazia che sta prendendo corpo in questo paese, grazie anche alla crescita di una classe media che reclama maggiore partecipazione. Questo, unito alla tradizionale e straordinaria combattività di questo popolo, può aprire scenari che lo stesso Erdogan non riesce a prevedere né gestire al meglio: Gezi Park insegna.

Istanbul, 2/07/2013