ROMA

Da Roma a Kobane: voci della resistenza curda nella Capitale

“C’è un pezzo di Kurdistan a Roma. All’interno del quartiere di Testaccio, pieno di locali alla moda, bar e ristoranti, c’è una piccola comunità di persone che gestisce un centro culturale nell’area dell’ex Mattatoio”

Un gruppo di ragazzi è seduto intorno a un tavolo di plastica. Alcuni sono davanti a una scacchiera, intenti in un gioco che sembra la dama. Altri bevono del thè, chiacchierando tra loro. Altri ancora, entrano ed escono da un edificio di pietra bianca con delle valigie. C’è un pezzo di Kurdistan a Roma. All’interno del quartiere di Testaccio, pieno di locali alla moda, bar e ristoranti, c’è una piccola comunità di persone che gestisce un centro culturale nell’area dell’ex Mattatoio. L’ingresso non è visibile dalla strada ma si nota a malapena: è solo girando lo sguardo a sinistra, una volta entrati all’interno del Villaggio globale, che si fa caso a un grande piazzale, con una tettoia e dei tavolini. “Ararat”, recita la scritta all’entrata del centro. Ararat, come il monte più alto della Turchia. Ararat, come il nome della prima nave carica di profughi curdi arrivata in Italia.

Situata accanto alla sede di Senza Confine, storica associazione fondata da Dino Frisullo, attivista e militante antirazzista, Ararat è un centro culturale nato nel 1999. Uno stabile abbandonato che è diventato uno spazio di accoglienza e di ospitalità, ma anche uno spazio dove sperimentare forme di condivisione tra attività artistica e culturale, solidarietà civile e trasformazione del territorio. Un luogo occupato ed autogestito anche dall’associazione Orma, insieme a migranti e rifugiati curdi, nel corso delle grandi giornate in difesa di Ocalan.

Qui, oltre alle numerose attività politiche e sociali, si da anche accoglienza e ospitalità ai curdi che arrivano in Italia. «Ormai chiunque alla stazione Termini, dal kebabbaro al giornalaio, quando vede che arriva un curdo a chiedere informazioni gli da direttamente la via dove si trova Ararat», dice Nayera, curda di seconda generazione e attivista del centro.

Garip è un attivista curdo arrivato in Italia dalla Turchia due anni fa.

Garip, come molti ragazzi kurdi di Turchia, si è rifiutato di fare il servizio militare ed è dovuto scappare, per essersi rifiutato di alzare le armi contro quelli che definisce propri fratelli

«Quando arriviamo in Italia, iniziamo a lavorare al centro – racconta – Imparando per esempio a fare il pane. Quando poi si ottiene la carta di soggiorno, si può emigrare all’estero, in Germania o in Austria, e trovare lavoro lì». Questo perché nessuno di loro in realtà vuole rimanere nel “bel paese”, ma a causa di Dublino II spesso è costretto alla permanenza qui. I curdi in Italia attualmente sono settemila. A Roma ce ne sono circa cinquecento, di cui alcuni vivono in centri d’accoglienza mentre altri sono riuscita ad avere un appartamento.

«Quando un curdo arriva in Italia e si affaccia ad Ararat, capisce realmente cosa vuol dire essere un rifugiato – spiega Garip – quando sono lontani credono che qui sia tutto bello, che ci sia libertà. Giunti qui capiscono le difficoltà che incontriamo».

I curdi sono un popolo che si divide tra la Siria, la Turchia, l’Iran, l’Iraq e l’Armenia. La repressione li ha sempre colpiti duramente, soprattutto in Siria e in Turchia. Said, che proviene da quest’ultimo paese, parla delle rinunce ai diritti basilari con cui lui e la sua popolazione hanno dovuto convivere. Dal non poter parlare la propria lingua al non poter insegnare la propria cultura, al non riuscire a ottenere un lavoro. «In Siria non abbiamo neanche la carta d’identità. In Iran se parli di diritti ti ammazzano. In Iraq non sappiamo come vanno le cose ora. Negli ultimi quarant’anni ci hanno sempre massacrati, esiliati, uccisi. Durante le nostre manifestazioni la polizia ci porta in carcere solo per aver portato una bandiera. I turchi invece possono ammazzarci davanti ai loro occhi con pistole e mannaie e non gli viene detto nulla. Per portare avanti la causa devi avere molta forza. In Turchia e negli altri paesi mediorientali, non si può dividere la cultura curda e la causa curda, perché sono collegati. Per questo non ci fanno parlare e praticare la nostra cultura».

Il problema della lingua, anche se sembra secondario, ha effetti devastanti sulla vita materiale delle persone, sia che siano adulti, sia che siano bambini. «C’era una signora che andava a trovare il figlio, un attivista curdo, nel carcere turco di Diyarbakir, famoso per le torture inflitte ai militanti rinchiusi lì dentro. La regola è che si può parlare solo turco. La signora però, è molto anziana e parla solo curdo. Conosce solo una parola: Olol nasılsın. Come stai figlio mio. Iyi yim , anne. Bene mamma. E così per tutta l’ora del colloquio».

Kobanı, un prototipo di autonomia democratica


«È importante dire che a noi non interessa costruire un altro Stato. E questo è un punto importante nella nostra battaglia. Abbiamo creato dei cantoni dove arabi, turkmeni, curdi, cristiani vivono insieme in pace. Questo per la Turchia e gli altri Stati dove vivono i curdi, rappresenta un grosso problema. Abbiamo creato un esempio per convivere e loro vogliono romperlo».

I curdi che scappavano dalla guerra siriana, e in particolare da Aleppo e da Damasco, si andavano a rifugiare nella Repubblica della Rojava, perché considerata il luogo più sicuro dove poter vivere. Adesso, con l’Is che cerca di conquistare l’avamposto curdo, cercano di rifugiarsi in Turchia. Ma lo Stato continua a negare il corridoio umanitario, riportando indietro le persone e condannandole, secondo le parole di Garip, “a morte certa”. La comunità presente ad Ararat, continua a mantenere contatti diretti con quanto sta accadendo a Kobanı tramite le proprie famiglie e i giornalisti che si trovano lì. C’è un distretto rurale alle porte di Kobanı, Suruç, da dove le persone osservano ciò che accade a chi sta resistendo con le sole proprie forze all’avanzata del califfato. «I curdi stanno resistendo solo armati di kalashnikov e del proprio coraggio contro i carri armati e armi ben più pesanti. Donne, uomini, anziani, non c’è nessuna distinzione. Tutti combattono insieme. Abbiamo chiesto delle armi, nessuno ce le ha mandate. Neanche le grandi fabbriche che le producono, che dovrebbero avere tutto l’interesse a fornircele, hanno rifiutato di darcele. Siamo arrivati al paradosso che le ragazze per abbattere i carri armati usano il proprio corpo, facendosi esplodere. Quelle donne non volevano morire. Volevano una vita e gli è stata negata». Nessun aiuto è arrivato finora dalla comunità internazionale.

La Turchia non vuole mandare aiuti perché per il governo, quella della repubblica della Rojava, è un’esperienza pericolosa. «In Turchia esistono cinquecento etnie diverse. Se tutti vedessero che la Rojava funziona bene, vorrebbe dire per l’autorità centrale andare incontro a un cambio del sistema che è stato in vigore fino a oggi. Se Kobanı venisse distrutta, per loro sarebbe una vittoria perché aborrano questo tipo di istituzione democratica». L’unico corridoio creato, infatti, è stato quello dei curdi per vigilare e impedire che la Turchia passi di nascosto le armi all’Is per annientare la Rojava.

«Facciamo manifestazioni da due anni contro l’Is ma nessuno ci ha mai ascoltato quando ammazzavano i curdi. Appena hanno toccato gli interessi americani ed europei, si sono invece accorti della sua pericolosità».

Nel frattempo è arrivato anche Said, un ragazzo curdo di ventinove anni che lavora come mediatore culturale. Said è arrivato in Italia 13 anni fa , molto giovane e da solo, dopo un viaggio un viaggio che preferirebbe dimenticare.

Le voci dei due ragazzi iniziano a intrecciarsi. «La verità è che i paesi occidentali non interverranno contro l’Is finché la Rojava non cadrà. Se volevano levarli di mezzo l’avrebbero già fatto mettendoci solo un giorno di tempo», dice. «Nei giornali non abbiamo mai letto nulla sulla resistenza eroica che c’è a Kobanı, si parla solo dell’avanzata dell’Is. Il coraggio dei curdi però, e la voglia che hanno di libertà, è più forte della paura della morte». «Un grosso ruolo in questa resistenza lo giocano le donne, che sono le più determinate nel portare avanti la lotta. E questo è stato anche merito non solo dell’esperienza di Rojava, ma anche dell’addestramento ricevuto dal Pkk». Il Pkk, a oggi, è ancora considerato un’associazione terroristica. «La realtà però è ben diversa. Ci sono persone che pensavano tutto il male possibile del Pkk e che quando hanno visto con i loro occhi cosa è veramente hanno cambiato totalmente idea. Il progetto della Rojava è talmente interessante e ben riuscito, che anche molti arabi vi si sono rifugiati. E il mondo deve vedere questo. Siamo un popolo di più di quarantacinque milioni di persone. Non possono continuare a negarci l’identità», dice Said.

«Nessuno sa qual è il vero obiettivo dell’Is. Anche perché che non c’entrano niente con l’Islam l’hanno capito tutti – continua – Secondo noi vogliono semplicemente svuotare i territori. E chi è che ha interesse a che ciò accada? Chi è che realmente li vuole occupare? Questa è una domanda che poniamo a voi».

Dal presidio per il Kurdistan

Con un breve salto nel tempo e nello spazio ci spostiamo a Largo Argentina, dove nel tardo pomeriggio del 17 ottobre l’UIKI, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, ha organizzato un presidio in solidarietà per Kobanı: vi sono molti ragazzi kurdi, che reggono una grande striscione e non si stancano di scandire canti in turco e kurdo e slogan contro lo Stato Islamico, contro la Turchia, e per il Kurdistan libero. E ci sono anche tanti italiani.

A questo presidio stanno partecipando veramente tutti i curdi che vivono a Roma e dintorni, quelli ospitati nella Comunità di Ararat e quelli che vivono per conto loro, quelli che da anni si sono stabiliti in Italia e quelli che sono appena arrivati. Fatma ha gli occhi accesi, corre da una parte all’altra del presidio, interviene al microfono, si scaglia contro i “fascisti” dell’ISIS

Fatma sta anche raccogliendo le firme per la petizione che chiede la scarcerazione di Ocalan,il leader del Partito Kurdo dei lavoratori, rinchiuso in isolamento dal 1998 nel carcere di Imrali in Turchia, dalle cui mura sono usciti i messaggi che hanno dato forma all’idea dell’autonomia democratica creato in Rojava e lanciato il processo di pace con la Turchia; ma nonostante i partigiani del PKK abbiano deposto le armi, la Turchia , dice Fatma, non ha smesso di fare la guerra ai curdi.

Lei stessa nel passato ha subito arresti, persecuzioni e torture, per questo motivo è scappata in Italia 10 anni fa , dopo che il marito, anche lui attivista politico curdo, l’aveva preceduta.

La lotta nel Rojava, continua, l’esercito dell’Isis continua a minacciare Kobanı, la lotta del popolo curdo per non essere cancellato va avanti, perciò va mantenuto lo sguardo su quei luoghi mentre nei nostri devono continuare le mobilitazioni: il 1 novembre si celebrerà la giornata internazionale del Kurdistan e da Roma partirà un corteo. Ci sarà anche Fatma.