DIRITTI

Cosa può un centro antiviolenza

La rubrica Fuori mercato va a Torre Spaccata, a parlare con alcune operatrici della cooperativa sociale BeFree. Cosa sono, come funzionano, come si articolano una parte di quei pochissimi centri antiviolenza a Roma che ancora resistono mese dopo mese a dispetto del Comune.

Luoghi in cui si offre consulenza accogliendo le donne che hanno subito violenza, tenendo conto del contesto storico, sociale e politico delle relazioni di genere, ma non solo.

I primi centri antiviolenza in Italia risalgono agli inizi degli anni ’90; un po’ prima (negli anni ’80) si sono, invece, sviluppati nel nord Europa. Fino ad allora, le donne vittime di maltrattamenti non avevano luoghi ad hoc dove rivolgersi per essere ospitate o semplicemente ascoltate e sostenute. Non c’erano campagne di informazione, tanto meno servizi sui giornali o in televisione. La loro origine si collega al movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta, sviluppatosi a livello internazionale, e all’intensa attività politica che lo caratterizzava. Le radici del movimento erano stati i gruppi di autocoscienza, nei quali le donne condividevano storie di vita ed esperienze e costruivano l’analisi storico-politica della dominazione maschile e della subordinazione femminile.

Nei gruppi di autocoscienza femminista, il fenomeno della violenza in famiglia da parte del partner iniziava progressivamente ad emergere. Da qui l’idea di istituire case rifugio dove le donne potessero iniziare a riprendersi le loro vite, lontane dalla vessazione domestica, per provare a ricominciare una vita libera dalla violenza. Una vera e propria rivoluzione che sfidava il potere secolare e immutabile che gli uomini esercitavano nella famiglia, pilastro e nucleo della società. Le mogli che decidevano di allontanarsi da casa, senza preavviso, per andare a vivere con gruppi di donne in case gestite da sole donne, rappresentavano un vero e proprio colpo alla struttura della politica sessuale patriarcale.

Iniziano a vedere la luce le prime Case delle donne in Italia nel 1989, e poi, in meno di un decennio, in Italia, (circa) 75 centri antiviolenza (cav). Oggi assistiamo ad una nuova assunzione istituzionale-politica, ma estremamente blanda, confusa e contraddittoria della violenza di genere e da un complesso dibattito nella definizione del terribile problema atavico e purtroppo attualissimo nello stesso tempo. Da qui le riflessioni sul linguaggio, sulla metodologia di intervento e su come servizio, lavoro riproduttivo e di cura possono andare di pari passo, all’insegna dell’autodeterminazione di tutte le donne.

Come abbiamo ricordato altre volte, a fronte dei dati sempre più allarmanti sui femminicidi e sulla violenza di genere, i cav sono a rischio continuo nella città.

La cooperativa BeFree ha lanciato l’allarme chiusura a inizio giugno riguardo allo storico centro antiviolenza “Donatella Colasanti e Rosaria Lopez” attivo dal 1997 (che gestisce da un anno), la cui convenzione scade il 30 luglio, e per il quale sono stati posti dal comune problemi di natura burocratica alla emanazione di un nuovo bando. Al contrario, SosDonna H24, gestito da Be Free (dal 2010) che non ha il servizio di ospitalità, ha smesso di funzionare il 26 giugno mattina, con la riconsegna delle chiavi e la presa in carico degli schedari. In quella giornata erano presenti, oltre alle operatrici, un gruppo di cittadine e cittadini e alcune attiviste della rete Io Decido.

La motivazione della chiusura è la mancata pubblicazione di un nuovo bando da parte del Dipartimento Comunicazione del Comune di Roma e neanche l’accordo per una proroga che preservi la continuità del lavoro è stato raggiunto. Il timore è che quell’esperienza possa finire nel nulla, con conseguenze, anche immediate non indifferenti. Per esempio per quanto riguarda la tutela della privacy, nel caso i locali finissero abbandonati a se stessi. Documenti, verbali, schede, materiale “sensibile” sui dati delle donne che sono state accolte appartiene al Comune, inoltre sembra che non tutte siano state rintracciare per avvisarle della sospensione del servizio. Al momento si rischia l’ingolfamento anche degli altri centri antiviolenza, considerando le (circa) 200 donne in fase culminante del loro percorso di recupero post-traumatico che dovranno far riferimento ad altri centri. Senza contare che le loro schede di riferimento, indispensabile documentazione del loro cammino, serviranno, spesso perfino a distanza di anni anche a livello legale e per le operatrici chiamate a testimoniare nei vari processi.

Attivo dal 2010, situato prima in Via Statilio Ottato e poi approdato a Via di Grotta Perfetta 610 a Casale Rosa, SosDonna ha seguito fino all’ultimo, circa 1934 donne (dati risalenti al 17 giugno 2016) per il 40% non italiane, sostenendole sul piano psico-sociale, legale e formativo, un servizio di segretariato sociale. La particolarità di questo centro era la possibilità per le operatrici di incontrare le donne non solo presso la sede, ma anche nei vari presidi territoriali (servizi sociali, ospedali, forze dell’ordine) in cui le donne si trovavano, proprio a seguito delle violenze subite. Nessun vincolo territoriale previsto, spesso ci si muoveva anche oltre il GRA senza problemi. Non è da poco, considerando le numerosissime chiamate, il carico di lavoro, a fronte della continua deresponsabilizzazione delle istituzioni.

Casale Rosa è diventato dall’agosto 2014, ovvero da quando SosDonna vi si è trasferito, un centro di “mediazione sociale” anche per il territorio, un vero e proprio hub di aggregazione nella città. Laboratori per bambini, attività e spettacoli che “animano un quartiere dormitorio”. Uno di questi, ci racconta Francesca, operatrice di Befree, è il laboratorio ludo-pedagogico per bimbi che li aiuta nella gestione delle emozioni gestito in collaborazione con l’associazione “Io Sono”.

Nel 2012 ha preso le mosse un gruppo di auto-mutuo-aiuto, “Le Fenici che volano verso Itaca”. Si tratta di donne con storie forti alle spalle, che con la collaborazione di una psicologa della cooperativa BeFree hanno deciso di iniziare un percorso autogestito nella fuoriuscita dalla situazione di violenza vissuta, in cui alcune donne più “avanti” in questo, gradualmente, assumono un ruolo di facilitatrici per le altre. Un’esperienza quasi unica in Italia, sullo stile nordamericano.

Il cav “Donatella Colasanti e Rosaria Lopez” di BeFree, invece, si trova ora in Via di Torre Spaccata, 157. Ed è lì che sono andata.

Uno dei primi in Italia (il più vecchio è del 1992) che ha seguito almeno 9000 donne e ne ha ospitate circa 300, molte con figli minori, che hanno avuto una reale opportunità di riprendere in mano la propria esistenza dopo le violenze subìte, e di progettare un futuro libero, indipendente e sereno. Un servizio che assume la complessità e la pervasività della violenza contro le donne facendosene carico attraverso operatrici specializzate nell’accoglienza a donne vittime di violenza di genere, abuso, maltrattamenti, stupro in famiglia, stupro occasionale, al fine di sostenere coloro che vi si rivolgono nel loro percorso di fuoriuscita dalla violenza. Sono previsti: ascolto telefonico h24; colloqui di sostegno; interventi in emergenza presso forze dell’ordine, ospedali, servizi sociali,ecc.; consulenza professionale specialista medica, legale, socio-psicologica, peritale; mediazione culturale; gruppi di auto-mutuo aiuto (ama) o self help; azioni in favore dei bambini e delle bambine e della relazione madre/figli; incontri protetti o di osservazione e relazione genitori figli tramite il servizio spazio neutro gestito dalla cooperativa Be Free.

«Sono numerosi i fattori che attestano l’importanza di un percorso di auto-aiuto. Il sostegno che le donne ricevono dalle altre partecipanti, connesso al fatto che all’interno del gruppo, le donne, non si sentono giudicate ma libere di poter esprimere i propri vissuti per avere un supporto e sanno di non essere sole: il gruppo è sempre dietro ad ognuna per dare forza e sostegno.

Responsabilizzazione: ovvero l’assunzione del proprio problema, nel senso che la persona impara a conoscerlo, a non fuggirlo e ad affrontarlo. Apprendimento: le donne sviluppano conoscenze sulla violenza e le sue dinamiche per imparare a riconoscere i comportamenti violenti senza colpevolizzarsi e senza giustificare l’uomo per la violenza subìta.

“Attraverso il gruppo, adesso, ho ben chiaro il concetto di violenza e la riconosco subito. La spirale della violenza mi è rimasta impressa nella mente e, adesso conosco bene quali sono i paletti che le persone non devono e non possono superare, quando sono in relazione amicale o amorosa con me”.

Scambio di informazioni e consigli che le donne si danno: soprattutto rispetto al processo e alle udienze che ognuna di loro deve sostenere. Le informazioni possono essere di natura pratica (insegnare a salvare i messaggi o le e-mail minatorie) o anche di natura emotiva: chi ha già superato la fase del processo mette la propria esperienza a servizio delle altre, dando dei consigli su come gestire l’ansia o gli attacchi di panico, o anche sul prepararsi ad affrontare la poca sensibilità che spesso caratterizza il comportamento all’interno dell’aula del tribunale». [1]

Attualmente sono ospitate 6 donne e 4 bambini in camere carine e accoglienti. Disegni alle pareti fatti dai bambini in ogni dove, una stanza ricreativa piena di giochi, colorata e vissuta come solo i bimbi sanno fare. La cucina con sala da pranzo è grande e spaziosa. Prendo il caffè con Francesca che prosegue il racconto e una ragazza ospite del centro, visibilmente felice per il colloquio di lavoro che l’aspetta il giorno dopo. Vi è poi una sala comune in cui ci si riunisce insieme, donne e operatrice.

Il telefono squilla spesso, oltre all’ospitalità e a tutti i servizi presenti c’è lo sportello e i colloqui gestiti dalle operatrici antiviolenza del centro, tutte con professionalità differenti e con una conoscenza approfondita delle dinamiche che sottendono alla violenza di genere. Su ogni donna viene redatta una scheda, una relazione di ascolto etc… Teniamo presente che molti cav più recenti non fanno attività di sportello. All’interno dell’équipe ci sono psicologhe, sociologhe, mediatrici culturali, assistenti sociali, educatrici, etc… ognuna fornisce il suo specifico contributo, ad esempio è presente una psicologa-sessuologa che svolge dei laboratori sull’affettività con le donne e con i minori. L’orientamento al lavoro, sempre da parte di una operatrice specializzata in questo, passa attraverso sia colloqui individuali di emersione di competenze, spesso rimaste per anni inespresse, sia attraverso gruppi.

Nel quartiere dormitorio di Torre Spaccata accanto a un teatro dismesso, sorge in mezzo al verde la struttura in cui risiede anche il cav, all’interno dell’edificio “Ex Bruno Buozzi”, di 7 piani, che accoglie diverse case famiglia, centri anziani, servizi socio-sanitari, tutti afferenti al Comune di Roma. Recentemente è giunta l’informazione che l’edificio intero non è di competenza comunale (come appariva certo e documentato, anche da determine comunali che risalgono al 1996) ma in realtà la proprietà di esso è della Regione Lazio, il cui Ufficio Patrimonio sta reclamando la riscossione di imponenti cifre per l’occupazione, facendo riferimento a circa 20 anni di usufrutto dei locali. Il Comune, da parte sua, non sembra avere la possibilità di saldare un debito così importante, e l’unica soluzione che si sta profilando è di chiudere il servizio. Pertanto, se non verrà risolto tale contenzioso tra Comune e Regione, il 30 luglio 2016, data di scadenza del bando di affidamento del Centro antiviolenza, questo importante spazio verrà chiuso.

Uno sportello promosso dalla cooperativa “Be Free” è “Sportello Donna” H24 nel Pronto Soccorso Generale dell’Azienda Ospedaliera San Camillo dal 2009. Si tratta di un progetto pilota ospitato all’interno del San Camillo; un servizio di accoglienza e assistenza per le vittime di violenza intrafamiliare che “adotta metodologie specialistiche e modalità di relazione personalizzate, non giudicanti e non stereotipate”.

La caratteristica importante dello sportello è anche l’architettura con cui è stato concepito: si articola su due porte, una dà sulla sala d’attesa, l’altra sul triage dell’ospedale, in modo che una donna che vi si presenta può entrare e uscire senza avere contatti con le persone che la accompagnano, purtroppo, spesso gli stessi mariti che usano violenza contro di loro. Per un anno (dal 2012 al 2013) il servizio è stato aperto su base volontaria per presidiare il posto. Ora è finanziato da WeWorld, lo stesso ente che finanzia Lo Spazio Donna WeWorld nel quartiere di San Basilio a Roma. Quest’ultimo è un luogo di “incontro, ascolto, condivisione e partecipazione per le donne” dove confrontarsi sulle relazioni, condividere esperienze, informarsi e conoscersi e dove attivare nuovi percorsi individuali e di gruppo, che nasce con l’obiettivo di “contribuire a creare e diffondere una cultura accogliente e combattere e superare gli stereotipi di genere”.

Vi sono laboratori in un’ottica di apertura e di scambio reciproco con le donne del territorio. Inoltre è un luogo dedicato all’infanzia in un cui è presente un servizio continuativo e molteplici attività dedicate alla relazione mamma/bambino e all’educazione attiva. Durante gli orari di apertura dello spazio i bambini e le bambine tra 0 e 8 anni possono essere affidati a operatrici e operatori, così da lasciare le mamme libere di seguire, senza preoccupazioni, le attività proposte, o anche solo poter “prendere un caffè”. Luoghi in cui la maternità diventa motivo di incontro, di scambio, di ascolto, di mutuo-aiuto, rompendo la solitudine che spesso ricade sulle donne nella vita quotidiana.

Un’altra attività di BeFree è lo Sportello di consulenza psicosociale e legale a favore di donne vittime di tratta trattenute nel Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Ponte Galeria. Luogo di emersione anche dello sfruttamento sessuale e lavorativo. Un progetto interessante è la scuola estiva di BeFree. Una scuola residenziale autogestita giunta alla sesta edizione. Quest’anno la tematica è quella della maternità: “D’amore e d’ombra – buone, perfide, libere, aguzzine, simboliche transgender, surrogate, ottime, pessime MADRI“.

I centri antiviolenza in Italia sono già pochi e insufficienti, per non parlare di quelli presenti a Roma. Emblematico che a fronte dell’aumento degli episodi di violenza sulle donne, non solo dei casi più eclatanti di femminicidio che sollevano l’attenzione dei media mainstream, questi importanti presidi territoriali siano sempre più definanziati, dismessi, smantellati, e chiusi. Tutto ciò è un’eredità della gestione commissariale della città, aspettiamo tutti e tutte risposte dalla nuova giunta insediata.

C’è dell’altro. La svalutazione culturale del lavoro di cura continua a produrre effetti devastanti. Prendersi cura delle vite è atto propriamente femminile in origine, ma ricordiamo che occorre anche “ripulire lo spazio” dall’atto di sacrificio di sé perché ormai attraversa tutti i generi e tutte le generazioni, supplendo in modo enorme alla mancanza di cura pubblica. La città che accoglie è anche uno spazio di formazione, creatività, relazione e cura degli esseri umani, in gran parte irriducibile alla meccanizzazione, che richiede un elevato grado di interazione umana, in cui gli elementi fisici, territoriali e affettivi sono indissolubilmente uniti.

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[1] Rielaborazione da alcuni estratti della tesi di laurea di Simona Portelli di BeFree che ha sviluppato tra gli obiettivi quello di valutare quali fattori siano efficaci, all’interno di un gruppo di auto-aiuto, nella fuoriuscita dalla situazione di violenza vissuta dalla singola donna.