ROMA

Cinque cose che ho imparato sul comunismo

Riceviamo e pubblichiamo alcuni “appunti sulla Conferenza di Roma” di uno dei tantissimi partecipanti.

La prima notazione è questa: ce ne vuole un’altra: una conferenza non basta, nonostante la meravigliosa platea internazionale di relatori – sorprendente e insolita, probabilmente sconosciuta nella sua ricchezza anche alle migliori università italiane pubbliche e private. Certo, secondo la logica, una considerazione del genere, in un breve testo scritto per mettere in fila, a caldo, le sensazioni prodotte da un evento bello e importante, dovrebbe essere l’ultima. Ma dovendo allenarsi ad alterare le strutture per fare più spazio ai soggetti, l’ho scritta per prima, perché dichiara innanzitutto il desiderio di farne, sentirne parlare e sperimentare: ancora e ancora. Il comunismo è creativo.

La storia, come successione di eventi, è sempre esistita. Solo da un certo momento in poi però si è riconosciuto che essa poteva essere non solo il luogo in cui si realizzano gli eventi, ma anche quello nel quale gli stessi potevano e dovevano contribuire all’evoluzione umana. Questa poteva realizzarsi attraverso l’emancipazione dei soggetti che facevano la storia. Emanciparsi da cosa? Dalla privazione, dall’ignoranza, dallo sfruttamento. Nella storia era necessario stare. Come protagonisti. Facendosi carico della sua materialità. Ognuno poteva dare secondo le sue capacità, ognuno poteva ricevere secondo i propri bisogni. Il comunismo è materialista.

Accumulare, nascondere, privare, privatizzare, privazione, privato, privo, accaparrare, speculare, sfruttare sono il contrario di condividere, socializzare, solidarizzare, redistribuire, creare, dare, accomunare, comunicare. C’è un rapporto tra azioni ed emozioni: l’angoscia riempie facilmente lo spazio definito dal primo gruppo di parole. Il comunismo è stata una spinta a spaccare di quello spazio i confini. Contro il respiro affannato dell’angoscia, lunghe boccate ripetute di sfogo, liberazione e alla fine gioia.

Già, qualcosa in più occasioni è andato storto. Questo è accaduto quando il potere preso ha corroso, assorbito, accentrato le intenzioni, tradendo i principi da cui le stesse erano sorte. Si è imparato nel tempo, e a spese di tutti i comunisti e le comuniste, che il comunismo è, e non può essere altrimenti, una frantumazione, redistribuzione, condivisione del potere: cioè delle possibilità del fare. Il comunismo è emancipazione.

Perché ricordare, cento anni dopo, la rivoluzione di ottobre? Perché un comunista ama la violenza?

Tutt’altro. Piuttosto egli sa che ciò che lo rende oggi libero sono i conflitti prodotti nella società nel corso del tempo, che nessun diritto è stato regalato, che la libertà esiste solo se condivisa e, per tanto, in certa misura, limitata dalla responsabilità di renderla comune e attraversabile. Nell’ottobre del 1917 è successo l’irreparabile: la fame, la miseria, lo sfruttamento, la rabbia non potevano più accontentarsi dell’elemosina insipiente di chi deteneva il potere.

Il 1917 non è un desiderio, è un monito. Il comunismo è conflitto.

Non può più esserci un partito comunista, perché, se pure non declinato come tale, il comunismo è plurale, lo è sempre stato. E solo l’inganno del potere che si accentra che lo ha privato della bellezza della sua complessità. È femminile, straniero, transnazionale. Ama come meglio crede. È fatto di soggetti che vivono la propria individualità accettando la necessità biologica di una vita in comune: cioè di uno scambio continuo tra di essi e i collettivi che li ospitano. Non è un obbligo, non è una prescrizione, non è una strategia. È una condizione naturale di reciprocità che trasforma i soggetti da sempre, ne affina le qualità, consente lo sviluppo delle facoltà, non ultime quelle comunicative. Il comunismo è sensibile.

Al fine: il comunismo non esiste, non è mai esistito: il comunismo è questa intenzione che ci muove nel mondo, libera spazi, tesse fili, costruisce relazioni, eccede, sottrae – distribuisce – e crea.

Esso appartiene a chi vuole praticarlo.