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Il caso della Banda Mario. Per una Resistenza internazionalista e multietnica

La storia della Banda Mario e dei partigiani neri che dalla Mostra d’Oltremare andarono a combattere in un battaglione internazionale nelle Marche. Ne parlano un libro dello storico Matteo Petracci e una puntata di Passato e presente

Sentiamo ancora il calore che ci affratellava, anche quando qualcuno cercava di opporci, di dividerci, di separarci; quando nulla poteva dividerci: quando la passione, l’ideale, il futuro era in ciascuno di noi così limpidamente configurato, che non resta difficile ritornare ai momenti più significativi di quelle giornate, di quelle serate, quando i colloqui in italiano, in slavo, in russo, in inglese, in somalo erano talmente comprensibili in un meraviglioso ricomporsi di una lingua universale, che solo la fratellanza umana poteva rendere possibile. (partigiano Franco Cingolani, commemorazioni della Resistenza, 25 aprile 1965, Matelica)

 

L’Italia è una Repubblica fondata sulla rimozione del passato coloniale e su una scarsissima presa di coscienza delle responsabilità italiane sulla Shoah. Non sorprende quindi che si sia per ora parlato poco della partecipazione di africani, e in particolare di ex sudditi coloniali, alla guerra di Liberazione. Storia diversa è quella di altri stranieri, in particolare soldati di varie provenienza, come britannici jugoslavi sovietici, che combattono fianco a fianco con partigiani italiani – chi ha visto Paisà di Rossellini ricorderà l’episodio del Delta del Po e la bibliografia (tra cui un dettagliato post di Wu Ming) è ormai piuttosto ampia.

Solo in anni recenti però le storie degli ex sudditi coloniali che hanno combattuto in Italia stanno cominciando a ricevere l’attenzione che meritano. A Giorgio Marincola, partigiano nero, figlio di una donna somala e di un militare italiano, cresciuto a Roma e morto in Val di Fiemme, dovrebbe addirittura essere dedicata una delle prossime stazioni della Metro C di Roma. E poi ci sono Italo Caracul (libico in provincia di Bergamo), Brahame Segai (eritreo in Liguria), e il nero ebreo Alessandro Sinigaglia, di cui ha scritto il compianto Mauro Valeri. Quella del gruppo di africani che dalla Mostra Triennale d’Oltremare finirono a combattere in una banda partigiana nelle Marche è però una storia peculiare, per diversi motivi. «Non è l’unico caso di africani che hanno partecipato alla Resistenza italiana… – racconta lo storico Matteo Petracci a Radio Vanloon, la più bella trasmissione radiofonica di storia in Italia – la cosa che rende diverso il caso della banda Mario è che questi africani si muovevano in gruppo e tra loro erano presenti anche due donne». Non solo, come ha scritto lo stesso Petracci nel libro Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza Italiana (Pacini editore, 2019), questo gruppo di giovani africani si unì a una banda internazionale, composta da britannici, sovietici, jugoslavi oltre che da italiani. Un caso unico, tenuto insieme da un comandante (Mario Depangher) con una solida formazione internazionalista, che veniva da una zona di confine (Capodistria), plurilingue e davvero espressione della Resistenza meticcia, multietnica e multinazionale. Oltre a Petracci, i Wu Ming hanno messo i riflettori su questa storia, che venerdì è approdata in Rai, nella trasmissione Passato e presente (disponibile ora in streaming su Rai Play), aggiungendo un altro tassello importante nel suo recupero. Non è un esercizio sterile infatti: se vogliamo che la Resistenza continui a vivere, bisogna recuperare queste storie, costruire contro narrazioni, raccontare la Resistenza come multietnica e migrante.

 

Dal corno d’Africa alle Marche

La storia allora. Nel 1940 si tiene una grandissima esposizione a Napoli, la Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare, che doveva far vedere al mondo che anche l’Italia aveva il suo bell’impero coloniale. Prima della televisione e di internet, si andava a queste mostre (oltre che al cinema) per vedere “le meraviglie” del mondo. Nella città partenopea, tra le altre cose, vengono ricostruiti anche dei villaggi, e portati in Italia abitanti provenienti da Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Dall’Africa orientale arrivano una sessantina di persone, che vivono separate e controllate visto che ci sono le leggi razziali («non solo non erano pienamente liberi, ma […] erano stati costretti a vivere in un’area limitata e circoscritta» e recintata da una rete alta circa due metri, Partigiani d’Oltremare, p. 50), oltre ad alcuni ascari, i soldati indigeni arruolati in truppe italiane, che verranno inquadrati nella Polizia dell’Africa Italiana. Dopo pochi mesi però, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, gli africani della Mostre d’Oltremare non potranno più lasciare in Italia: Suez è bloccata (corsi e ricorsi della storia) e la priorità non è certo il rimpatrio di una sessantina di neri.

E mentre la vita va avanti, con nascite, morti, malattie dovute al freddo, piccoli incidenti tra persone di etnie diverse e difficoltà sotto i bombardamenti, c’è tempo anche per fare le comparse in alcuni film, in particolare Harlem (anche noto come Knock out! Harlem), un film di propaganda e razzista diretto da Carmine Gallone – proprio in questi giorni è uscito il libro dello storico del cinema Luca Martera sulla genesi e storia di questo importante film poco conosciuto. Quando la situazione nella città campana diventa insostenibile, viene deciso il trasferimento di queste persone nelle Marche, a Villa Spada, utilizzata fino a quel punto come posto di internamento femminile. E qui comincia un’altra storia, di contatti e interazioni con la popolazione locale e poi l’entrata di parte del gruppo (soprattutto uomini single) nelle formazioni partigiane locali. Qualcuno morirà (come Abbabulgù Abbamagal, detto “Carlo”) altri tornati – come Aden Scirè, forse protagonista dell’episodio dell’albero Ual Ual, casus belli etiope – a casa faranno carriera nelle istituzioni locali.  Addis Adà fu addirittura un eroe nazionale etiope.

La trasmissione di Passato e presente diretta da Paolo Mieli racconta dei partigiani d’Oltremare con la consueta struttura: introduzione del giornalista, esperta in studio (in questo caso, Isabella Insolvibile), tre giovani storici in collegamento, filmati girati appositamente sui luoghi degli eventi e intervista a un altro storico (Petracci). Se questa storia è in Rai vuol dire che finalmente ha superato una nicchia di interessati per arrivare a un pubblico ampio e non necessariamente abituato a leggere libri o articoli di blog e giornali. E questa è un’ottima notizia. Come spesso accade con Passato e presente invece, la trasmissione in sé presenta luci e ombre, e queste ultime sono tutte prodotte dall’ingombrante e ambigua figura dell’onnipresente Paolo Mieli.

Da dettagli strategici (come parlare di lotta al “nazismo” e non al nazifascismo), o concentrarsi nelle sue conclusioni sulla storia dei preti – decisamente importanti nella Banda Mario, ma sicuramente anche più digeribili dei comunisti – è all’inizio che Mieli piazza il suo capolavoro di razzismo (in)volontario: «È una storia quasi non conosciuta, africani che hanno combattuto con l’esercito di Liberazione. Più o meno come i liberatori provenienti dal Marocco nell’armata francese. Ma mentre quelli con gli episodi di stupro in Ciociaria e nel Senese sono ben noti, sono ben conosciuti, di questi che non hanno fatto nulla men che nobile e hanno dato la vita per la liberazione d’Italia non si sa niente».

Ed ecco che subito, a inizio trasmissione, si instilla il dubbio che essendo neri potrebbero in fondo essere stupratori. Compiendo peraltro una notevole acrobazia e semplificazione storica, visto che il confronto più immediato e diretto sarebbe con le migliaia sudditi delle colonie francesi che combatterono con la Resistenza francese (paragone che si trova infatti nel libro di Petracci), più che con le truppe francesi a maggioranza coloniale, come quelle che si resero protagoniste di crimini efferati in Ciociaria i cui traumi (a cui Mieli ambiguamente e implicitamente si appella) sono ancora presenti.

Per fortuna il resto della trasmissione è invece perfetto, con le immagini nei luoghi reali che danno vita alle parole di Petracci e della bravissima Insolvibile, gli interventi precisi dei giovani ricercatori, la messa in scena dei documenti, un ottimo ritmo e ricostruzioni accurate e ben fatte. Si intuisce un ottimo lavoro redazionale, a partire dal libro di Petracci ma andando oltre per intervenire meglio sullo specifico televisivo.

 

 

I partigiani d’oltremare

Il libro di Petracci invece non solo ricostruire questa storia con precisione, dovizia di particolari ma senza mai annoiare, con uno stile coinvolgente (si legge come un romanzo, come si dice in questi casi) ma è anche un piccolo saggio di metodo storico: l’introduzione, con le quattro foto che vengono fatte parlare per raccontare questa storia, dovrebbe essere letta e riletta. In particolare, notando la presenza quasi nascosta, casuale, del partigiano etiope “Carletto” Abbamagal in una prima foto e poi al centro in una seconda, lo storico argomenta:

 

I partigiani della Banda Mario, per quanto vestiti come straccioni, hanno tentato di fare quanto nelle loro possibilità per presentarsi al meglio davanti all’obiettivo, per lasciare un’immagine di sé in grado di testimoniare degnamente la loro “storia”. Per questo, appena si resero conto del passaggio dell’etiope, lo chiamarono a sistemarsi fra tre sovietici e un ebreo, appartenenti cioè a quella schiera di untermensch, sottouomini, che nei progetti nazisti di ridefinizione razziale dell’Europa dovevano essere eliminati o resi schiavi. In loro era sicuramente presente e forte la consapevolezza che, così facendo, avrebbero più compiutamente restituito il carattere internazionale del loro gruppo […] Era quello il loro abito migliore, il più adatto a testimoniare, immortalandola, la loro visione del mondo, quella per cui stavano combattendo. È questo l’elemento che permette a queste fotografie di conservare immutata la loro potenza visiva (p. 14).

 

Petracci, che è storico e anche guida ambientale ed escursionistica, fa un uso (parco, non invadente) della prima persona singolare, si pone nella narrazione, mette in scena il suo punto di vista del ventunesimo secolo. Soprattutto nell’introduzione e nella conclusione esplicita incontri che lo hanno guidato in questa storia, come i partigiani Primo Boarelli e Bruno Taborro, che non sono solo “fonti” ma appunto incontri e conoscenze, e poi nella conclusione parla di compagni di viaggio quali Wu Ming 2 e Shukri Aaden Shire, figlia di uno dei partigiani neri. La presunta neutralità accademica è rifiutata, senza che per questo si perda la rigorosità – il libro ha passato le sue due belle revisioni scientifiche ed è uscito in una collana di storia. Si muove Petracci del resto tra metodologie diverse, scavando tutto lo scavabile in archivio, trovando contatti con persone nei luoghi più disparati, ricorrendo alla storia orale e riflettendo criticamente su tutto questo. La sensazione è che in molta pubblicistica storica di case editrici tra molte virgolette minori ci siano autentiche gemme, che probabilmente il non dover produrre libri utili (o solo utili) a concorsi e consorterie accademiche lasci più libertà agli autori: è il caso anche del libro dedicato a Giorgio Marincola, Razza Partigiana, di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, o, per restare in ambito resistenziale, del bellissimo Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri.

Partigiani d’oltremare quindi seguendo le storie di questi africani ne intercetta altre, da quella delle esposizioni all’internamento durante il fascismo. Infatti, detto della bellissima introduzione, Petracci dedica due capitoli a ricostruire la vita degli africani a Napoli (durante la Mostra e dopo), come sono arrivati, cosa facevano, chi erano, e che ruolo ebbero all’interno dell’esposizione: «Per molti italiani quella fu un’occasione unica. Non era affatto usuale osservare così da vicino ciò che fino a quel momento ave vano potuto soltanto immaginare grazie alle descrizioni contenute nei testi di letteratura coloniale o dedicata ai viaggi e alle esplorazioni etnografiche» (p. 43). Nel terzo capitolo, la vita nella villa nelle Marche è ricostruita anche grazie agli ultimi testimoni oculari (bambini o adolescenti all’epoca) che lo storico ha potuto intervistare.

Qui comincia la parte più romantica e avventurosa del libro, con la fuga di un primo gruppo (Mohamed Abbasimbo, Scifarrà Abbadicà, Abbagirù Abbanagi, Addis Agà) e poi l’assalto a Villa Spada per prendere armi e la “liberazione” di altri – un totale di dieci partigiani neri per quella prima fase, inclusi i già citati Scirè e Thur Nur), per poi arrivare con altre aggiunte ad un massimo di quindici. Liberazione tra virgolette perché, e su questo Petracci insiste molto, la scelta di unirsi alla Resistenza fu per questi uomini e donne una scelta libera: a differenza degli ebrei, non rischiavano infatti di essere uccisi o deportati, avrebbero potuto aspettare la l’avanzata degli alleati, come fece una buona parte del gruppo (in particolari, quelli con mogli e figli): «Unendosi alla Banda Mario, essi attraversarono confini politici prima ancora che geografici rivendicando il diritto a essere soggetti della storia»  (p. 87). Nel capitolo quarto e quinto si parla specificatamente di questo “very mixed bunch” (secondo la definizione di uno dei combattenti britannici) che fu la Banda Mario. Qui si leggono le avventure di questi partigiani,

 

un esperimento forse unico – e portò nuove problematiche e complessità da gestire. A quelle relative alla condivisione delle scelte militari – non tutti, infatti, ad esempio i britannici, erano propensi ad accettare la condotta che si richiamava alle tattiche della guerriglia – si sommavano quelle di tipo logistico, come la necessità di permettere ai musulmani di rispettare i precetti della loro religione (p. 89).

 

Petracci ricostruisce le biografie di molti di loro, incrociando fonti orali e archivistiche. Tra gli altri, l’ebreo romano Mosè di Segni era il medico e diarista della banda, almeno tre britannici, il croato Branko Rubigoni e lo sloveno Jule Kačič che con Giulio Taddei (uno dei locali) guidavano le azioni militari. E poi diversi sovietici, donne incluse, un ebreo polacco, uno greco. Si affaccia a un certo punto anche “Marconi”, cioè Enrico Mattei, il futuro presidente dell’ENI. Un gruppo che in totale arrivò a circa 200 combattenti, staffette e fiancheggiatori esclusi.

A capo di questo mondo eterogeneo, come abbiamo visto, Mario Depangher, un «convinto combattente internazionalista e antifascista» passato per confino e esilio, che aveva «gli strumenti necessari a trasformare quella babele di culture e idiomi in una formazione militare» e che riuscì sostanzialmente a tenere unita questa babele. Molte lingue, tutte e tre religioni monoteiste che varie confessioni, tutti unitesi nelle Marche, luogo strategico di passaggio nella prima fase della guerra partigiana.

Questa storia, però, continua. «Da quando il libro è uscito – ci dice Petracci al telefono – mi hanno scritto parenti dei partigiani. Stamattina stessa [ieri] mi ha scritto una nipote di Mario Depangher. Sono poi entrato in contatto anche con la figlia di uno dei partigiani etiopi, ma non ci siamo ancora visti per via della pandemia. E poi mi ha chiamato un signore ultraottantenne che si ricorda i neri che giravano a gruppi per il suo paese». Insomma la sensazione è che ci sia ancora molto da raccontare. Intanto la storia della Banda Mario, approdata in Rai, raccontata da Petracci, dai Wu Ming, che suscita sempre più curiosità, merita di continuare a essere ricordata perché la Resistenza italiana fu internazionalista e multietnica.

 

La foto di copertina proviene dall’Archivio privato Danilo Baldini – Cerreto d’Esi

Le foto di gruppo della Banda Mario viene dall’Archivio fotografico ANPI San Severino Marche e quella della targa dedicata a Carlo Abbamagal è di Matteo Petracci.