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Black bodies are blue. O della politicità del corpo nero in Moonlight

Cosa ci dice questo film della cultura black negli anni che hanno preceduto l’esplosione suprematista di Donald Trump?

Per riuscire ad apprezzare appieno l’importanza oggi di un film come Moonlight bisognerebbe mostrare prima di ogni proiezione del film, quasi come se fosse una “premessa”, almeno la prima parte di uno splendido documentario uscito lo scorso autunno negli Stati Uniti e poi su Netflix: 13th di Ava DuVernay. Nel ricostruire la persistente eredità della schiavitù nell’America contemporanea la DuVernay – regista black tra le più politicamente raffinate e lucide oggi in circolazione – descrive il momento in cui, nei primi anni Ottanta durante il boom dell’internamento carcerario delle comunità di afro-americani, la war on drugs di Reagan iniziò a diventare parte della cultura popolare. L’esempio più eclatante è il controversissimo show televisivo Cops, dove una telecamera segue dei poliziotti in servizio intenti nella ricerca e nell’arresto, spesso conditi con spettacolari colluttazioni, di piccoli criminali da strada. “Bad boys, bad boys/ whatcha gonna do, whatcha gonna do /when they come for you” (Cattivi ragazzi, che cosa farete quando vi verranno a prendere?”) si cantava nella sigla. E non è forse un caso che tutti questi “cattivi ragazzi” fossero sempre e sistematicamente neri.

Gli anni Ottanta in America insomma vedono comparire nei telegiornali e negli show della sera sfilate di uomini neri in manette. Ed è un dato ormai assodato (statistiche dell’FBI alla mano), e non un’opinione, che gli afro-americani furono sovrarappresentati come criminali molto più di quello che era la realtà. Proviamo a immaginare che cosa abbia voluto dire per l’inconscio di una nazione e per intere generazioni cresciute in quegli anni (che oggi per altro sono diventate classe dirigente) aver visto costantemente ogni sera l’associazione di un corpo nero con quello di un criminale.

Non si può oggi pensare al cinema black contemporaneo americano senza primariamente mettere a tema che cosa sia l’immagine del corpo nero nell’immaginario sociale. Diviso tra una costante mistificazione e la riduzione a oggetto di terrore, ora spauracchio per liberare le peggiori pulsioni law and order, ora erotizzato fino a venire associato a immaginari di animalità e sessualità eccessiva, il corpo nero è uno dei terreni simbolici più contestati dove vengono messi a tema le asimmetrie e gli antagonismi dell’America contemporanea. Sta qui la posta in palio tutta politica di un film intelligente ed efficace come Moonlight: apparentemente appartato e dai toni dimessi (i più pigri l’hanno persino liquidato con quella parola passepartout che è diventata politically correct), è in realtà una delle più efficaci riflessioni su come sia possibile rappresentare oggi una storia di subalternità sociale. Che nel caso dell’America black non può che partire appunto dal corpo.

Come ricorda spesso il filosofo Jacques Rancière, i subalterni sembrano non avere diritto di parola: se ascoltiamo il punto di vista del discorso dominante e del potere, le loro prospettiva è semplicemente assente. In realtà i subalterni parlano in continuazione, il problema è che le loro parole non riescono a essere udite, perché secondo i modi di sentire e di percepire che definiscono il nostro mondo non sono intellegibili. L’esempio che viene usato da Rancière in un suo celebre libro – Il disaccordo – è quello della secessione della plebe sull’Aventino nell’antica Roma: per i patrizi, cioè per i ricchi detentori del discorso dominante, le parole dei plebei sono una specie di rumore indistinto, non hanno nemmeno dignità di parola. Il problema allora è nelle orecchie o negli occhi di chi domina non tanto in chi è sottomesso. Bisogna cambiare le forme delle sensibilità per riuscire a comprendere le parole di chi non è incluso nel discorso dominante.

Moonlight si svolge in uno dei luoghi di subalternità più eclatanti degli Stati Uniti contemporanei: i ghetti urbani abitati da afro-americani o da ispanici, pieni di case popolari, con un fiorente mercato della droga, una diffusione capillare di armi etc. Luoghi di disagio che, appunto, compaiono nel discorso dominante sono nella forma del crimine e della violenza. Il protagonista del film in particolare è sottoposto a un doppio regime di esclusione: non solo vive in un luogo di alta marginalità sociale – il quartiere di Liberty City a Miami –, ma viene anche escluso dai suoi pari a causa dell’aspetto fisico deboluccio e un po’ mingherlino. È insomma escluso a tal punto che la sua voce a stento riesce a essere udibile. In una delle prime scene in cui scappa da dei compagni di scuola che lo vogliono picchiare si rifugia in una casa abbandonata e viene poi ritrovato da Juan, uno spacciatore di quartiere di origine cubana che diventerà il suo padre putativo per il resto del film: tuttavia le domande che una persona amica gli rivolge non trovano in lui nessuna risposta. “Voglio solo farti parlare, ragazzino” e in effetti in lui la parola è semplicemente mancante.

Ma il protagonista – che seguiamo lungo tre diversi capitoli della sua vita – è escluso anche in un senso più profondo riguardo a ciò che definisce la sua identità, cioè il suo nome. Da ragazzino lo chiamano Little, alcuni lo chiamano Chiron, il suo migliore amico lo chiama “Black”, ma i bulli che lo tormentano a scuola lo chiamano “faggot”, la preside lo chiama “boy” (“I ain’t boy” lui le risponde). E se la sua identità non gli viene dal nome, non gli viene nemmeno dalla famiglia: del padre non c’è traccia, e tra lui e la madre – una delle vittime della crack epidemics creata dalla reaganomics – non passa alcun affetto, solo qualche urla e qualche sberla di tanto in tanto. “La odio” dirà già fin da bambino di lei. “Devi decidere tu quello che vuoi fare di te” gli dirà Juan, l’unico insieme alla moglie Teresa (interpretata splendidamente dalla cantante r&b Janelle Monáe) attraverso cui passerà la sua formazione e la sua crescita. Gli unici grazie ai quali non proverà solo violenza e marginalizzazione, ma anche per la prima volta l’espressione un desiderio. Fino a che il rapporto di amicizia con il suo migliore amico Kevin non si tramuterà in un vero e proprio rapporto d’amore.

Perché laddove non è possibile avere una voce, è possibile tuttavia avere un corpo. Ed è tramite il corpo che spesso storicamente è passata la parola dei subalterni. Chiron infatti ha un corpo – piccolo, gracile, mingherlino, iracondo, sessuato, muscoloso, violento, dolce etc. etc. – ed è questo quello che caratterizzerà la sua vita e che noi vedremo della sua vita. Lo vediamo correre e giocare a calcio con i compagni, imparare a nuotare, fare lezioni di ballo a scuola; da adolescente lo vediamo con i suoi compagni nei bagni della scuola a fare la gara a chi ce l’ha più lungo; lo vediamo farsi il bagno da solo, mettersi a piangere, avere la prima esperienza sessuale con il suo migliore amico. Quello di Moonlight è infatti un mondo di poche parole, dove tuttavia sono soltanto i corpi a parlare. Perché i corpi sono capaci di parlare. Basta saperli ascoltare.

Nonostante il registro apparentemente intimo e minimalista, Moonlight è infatti uno dei più importanti film politici black degli ultimi anni: anche al netto di qualche ingenuità, di qualche sentimentalismo un po’ sopra le righe, e di tanto in tanto di un filo di estetizzazione non sempre pienamente controllata. E tuttavia ci vuole un notevole coraggio e lucidità estetica per riuscire ad elaborare una forma visiva così originale e per riuscire a raccontare un’esperienza – quella della comunità black americana – che storicamente è stretta tra la stigmatizzazione criminale e l’emergenza sociale; stretta cioè all’interno di un registro che è comunque interno al campo semantico della marginalità. Un modo per farlo è allora quello di evitare la fotografia realistica tipica del cinema di denuncia sociale – che punta sul senso di disincanto e di miseria – e di costruire un’immagine assolata, molto contrastata, che riesca a far emergere la consistenza della pelle nera dei corpi. L’idea del Direttore della Fotografia James Laxton e del regista Barry Jenkins è stata di essere fedeli al titolo della pièce teatrale di Tarell Alvin McCraney che forse in una frase riassume perfettamente il senso di questo film: In Moonlight Black Boys Look Blue, cioè “i corpi neri sotto la luce della luna sono blu”, da intendere anche nel senso inglese della parola blue, cioè malinconico, triste, introspettivo. Insomma per riuscire a decostruire quell’immagine criminalizzante dei corpi black che per trent’anni hanno sedimentato e costruito una tra le forme più odiose di marginalità sociale bisogna riuscire a vederli sotto un’altra luce. Appunto, una moonlight.

Questo testo è uscito anche su www.cineforum.it