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Bentornata a casa, Kathryn!

Arriva alla Festa del Cinema di Roma Detroit, film di K. Bigelow che racconta i tumulti del 1967 nella città più industriale degli Stati Uniti.

D’accordo, i due film irakeno e paki-afghano di Kathryn Bigelow non erano deviazioni ma sofferti attraversamenti di un immaginario bellico-patriottico di cui fuori Usa stentiamo a decifrare l’importanza (stesso discorso per Clint Eastwood), ma adesso ammirazione e pregiudizi si ricongiungono e siamo venuti al dunque: ogni guerra è una guerra civile. Il Vietnam era arrivato a Detroit (lo riconoscono veterani neri e bianchi; con opposti punti di vista); il che vuol dire che la Mesopotamia sta in ogni endemica uccisione poliziesca di neri e per questo le black lives contano quanto gli 80 o più assassinati durante rivolta di Detroit, a partire dalla strage delì’Algiers Motel su cui insiste con interminabile accanimento il film. Regista e sceneggiatore (Mark Boal) degli ultimi tre film sono gli stessi, ma il passaggio c’è. Non voglio rubare il mestiere a chi ha già bene parlato del film in Italia – Pietro Bianchi e Roberto Silvestri, e Owen Gleiberman negli Usa – ma due cose vorrei dirle da spettatore.

Quell’estate del ’67 a Detroit e Newark non fu un Summer of Love ma neppure l’opposto: piuttosto un incrocio dialettico, un cortocircuito fulminante. L’eroe del film è Larry Reed, il musicista che rinuncia alla carriera per sottrarsi al consumo dei bianchi e alla minaccia sempre latente dei pigs, ma non sono da meno le due sciampiste bianche dell’Ohio che non si lasciano né sedurre né intimidire dalla violenza delle uniformi e gridano: siamo nel 1967! La libertà sessuale femminile e l’eguaglianza razziale hanno gli stessi nemici. E lo ribadiranno al processo.

Per questo Point Break e Detroit, ai due estremi della scarna carriera di Bigelow, sono così diversi e simili: l’innocenza californiana del gioco cavalleresco a guardie e ladri nel primo, la brutalità asimmetrica del potere nel secondo, film di acqua e luce (e all-white) il primo, urbano e oscuro il secondo (ma in mezzo c’è il noir metropolitano Strange Days, dove già passa la linea del colore, c’è Watts alle spalle e i riots del 1967-1968).

Quel che conta è il modo di filmare come percezione e giudizio sulla realtà. Dice un personaggio in Point Break, sul rapporto fra il surfista e l’onda. La vista è un senso sopravalutato (c’è più Heidegger in questa frase che in tutto Malick), contano cioè i flussi – dell’acqua, dei vortici d’aria, dei suoni, della percezione distratta, del desiderio e del movimento. Lo stesso, in un contesto in cui il gioco (del cavalcare l’onda, della rapina in banca) è diventato guerra di classe e sessi e di razza (fra i many e gli sbirri e i legulei degli invisibili few, di qualsiasi colore siano). Anche in Detroit scorrono i flussi deleuziani: immagini barcollanti, suoni ossessivi di fucili e mitragliatrici, sirene, l’offensivo e oggi impronunciabile nigger delle ingiurie poliziesche, della battute fraterne fra neri, dei resoconti giornalistici e televisivi, l’adrenalina degli scontri e la statica interminabile tortura dell’Algiers Motel (un concentrato di piazza Alimonda, scuola Diaz e Bolzaneto), il sound nero Motown e quello bianco in arrivo di MC5 e Stooges, il sax di Coltrane, il buio sperimentale della fotografia di Barry Ackroyd. Un film tutto sensoriale, di un’autrice che nella giovinezza newyorkese ha visto Vinyl di Andy Warhol e Gerry Malanga (prima versione di Arancia meccanica) e assistito alle performances del Living Theater. Un film che integra parole, suoni, immagini, vibrazioni. Che mostra anche la frantumazione percettiva, per cui i testimoni si smarriscono nel ricordo, un balbettio che ricorda il silenzio dei superstiti dei lager, ma che proprio il film riattiva e connette.

Ma è anche un film didattico, da proiettare nelle curve degli stadi (altro che recite e magliette), nelle scuole, nelle borgate –  perché è cosa che ci riguarda e ci riguarderà sempre più con il crescere delle seconde generazioni di immigrati e perché la nostra consapevolezza dell’eguaglianza è al livello degli anni ’50 americani e solo nei casi più avanzati dei detective “buoni” della seconda metà dei ’60. Bello anche il cartoon iniziale, quasi brechtiano, che pur con qualche imprecisione, sintetizza for dummies la storia razziale e territoriale degli Usa, e neppure l’uso godardiano di un fuggevole cartellone stradale per ricordarci che Motown è una contrazione di Motor-town, la Detroit di Ford e della General Motors, oggi della FCA-Chrysler di Marchionne, che dietro il razzismo e la musica nera ci sta il capitale e la catena di montaggio (e dopo ci saranno le rovine della Detroit di oggi). Ma il culmine è il dibattito processuale (un climax che procede per raffreddamento, come la simulazione teatrale che interrompe i tumulti ed è causa occasionale dell’assalto all’Algiers Motel), dove si mostra lucidamente come funziona a senso unico lo Stato di diritto e il sistema delle garanzie e quanto fu concepito come tutela contro la violenza della polizia viene usato per legittimarla e assolverne gli sbadati o assatanati esecutori. Non si tratta (scrive a ragione Variety) di un film confortevole e commiserevole, a tale of hope and uplift, di ascesa dal buio alla luce: il sangue continua a correre e le assoluzioni di sbirri fioccano – come 50 anni fa.