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Bande de filles

Una ZTL generazionale nella banlieue parigina di Bobigny, sulle note di Rihanna e Para One. Intanto con il corpo. Però non basta: il desiderio è tortuoso.

Malgrado il suo passaggio più che meteorico nelle sale romane di giugno, vale la pena di segnalare (almeno per lo streaming) il film Bande de filles, 2014, di Céline Sciamma (già nota per Tomboy), incongruamente tradotto Diamante nero –dalla hit di Rihanna, Diamonds, che figura nella bella colonna sonora.

La sedicenne Marieme-Vic (una strepitosa Karidja Touré) riesce a evadere dalla gabbia delle costrizioni familiari, morali e religiose lasciandosi cooptare da un gruppo di tre coetanee trasgressive e imperiose, fragili e dure, che si compensano e sostengono in quanto gruppo, sfidando altri gruppi di ragazze, l’universo maschile e le regole sociali. Protagoniste e non più vittime. La versione banlieusarde di Bling Ring marca da subito la differenza con il romanzo di formazione adolescenziale di Sofia Coppola: manca l’identificazione dei saccheggiatori con i saccheggiati, lo scarto sociale è troppo forte, l’appropriazione mediante il consumo si sposta dagli oggetti (pure allegramente taccheggiati) alla fruizione della musica, il grandioso karaoke di Diamonds nella stanza d’albergo affittata, che emotivamente è un vertice del film. L’immaginario non si appiattisce sugli stereotipi della fashion e dello spettacolo, ma lo sfida continuamente dall’interno. Siano in una Zona Temporaneamente Liberata, non nell’imitazione rapinosa –le quattro ragazze non ce lo fanno mai scordare. Il fascino del lusso è marginale, così come la contrapposizione fra banlieue e Parigi (solo un paio di episodi, tutt’altro che lamentosi, di ribellione al pregiudizio), la polizia non compare mai e la voce dell’istituzione scolastica è fuori campo. La vera liberazione è dalle catene interne del ghetto e qui non c’è l’identificazione possibile: gli schiaffi del fratello di Marieme, Jibril, o il taglio dei capelli con cui il padre punisce Lady non consentono di rilassarsi. La stessa città deve essere ogni volta conquistata con un tragitto in métro, non è immanente come ai tempi dell’indimenticabile Bande à part godardiano. Il consumo “rubato” non corrompe, vestiti e cellulari fanno parte del corpo che cresce.

Marieme dunque si dà un’identità per “strappo” e socializzazione di banda, assume il nuovo nome di Vic per vittoria (victoire), ma le cose non sono così semplici. Se all’inizio, come in ogni romanzo di formazione gli eventi tracciano un’ascesa e la violenza produce un salto di qualità (il recupero di un coltello a serramanico dal lavaggio piatti svolge la stessa funzione di quando Bonnie e Clyde insegnano a un nero a sparare), dopo le cose si intorcinano. L’amore per il pur comprensivo Ismael la mette in rotta di collisione con il fratello, uscire da casa vuol dire entrare in altri giri di feste e spaccio, accettare un modello familiare stabile suona come una riduzione insopportabile della libertà appena assaggiata. Non solo non invidia la madre e il suo lavoro di addetta alle pulizie, ma neppure una tranquilla vita da casalinga con un partner dolce è un miraggio. La storia, mai tratteggiata a tinte fosche, resta irrisolta –come avviene nella vita, soprattutto in un’adolescenza insieme precoce e interminabile.

Se, nella prima parte, i gesti trasgressivi e l’occupazione di oggetti e luoghi prima irraggiungibili sono (come le zuffe o la violenza del football americano) tramiti dionisiaci per il riacquisto di sé, nella seconda parte i colori si raggelano e i problemi, liquidate la superficie bigotta e le convenzioni di ruolo, scendono in profondità. Vestire un abito (o una parrucca bionda) non conferisce più i superpoteri di un eroe Marvel, le relazioni individuali, i sogni e i desideri si fanno contraddittori, subentra la malinconia delle scelte difficili. Lo stesso stereotipo della riot grrrl gira su se stesso. È il muro che stringe ogni ZTL: non ce ne siamo mai accorti?

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