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Airbnb, o il comunitarismo neoliberista

Airbnb gode forse più di ogni altro dell’aura mitica che avvolge tutto ciò che si presenta con l’etichetta dell’economia collaborativa. Eppure, dietro all’entusiasmo che accompagna le rivoluzioni, la sensazione è che di nuovo, come spesso accade, vi sia ben poco.

Il suo carattere “postmoderno” attiene piuttosto alle narrative sapientemente costruite attorno a pratiche e istanze che, invece, radicalizzano il paradigma vigente, quello neoliberista.

Se in vista dell’ormai imminente apertura di Expo 2015 la situazione nel mega cantiere di Rho appare disperata, Milano sembra invece pronta per fare dell’evento il banco di prova definitivo dell’economia collaborativa e convertirsi, come auspica lo stesso Comune, in una «vera e propria Sharing City».

Airbnb celebra la buona notizia e si dice disposta a fare la sua parte per rendere la città «più aperta, accogliente e solidale, per chi ci vive e per chi la visita». In che modo non è dato a sapere ma appare chiaro che il clima istituzionale e i venti milioni di visitatori sperati rappresentino per Airbnb un’irripetibile occasione per affermarsi e legittimarsi sul mercato italiano con l’etichetta dell’economia collaborativa. Un’etichetta che non informa granché ma che serve a promuovere un’amplia gamma di iniziative e attività diversissime per tipologia, obiettivi e soggetti coinvolti. Eppure il termine è (ab)usato indistintamente dai media e a sua volta ripreso dai rappresentanti politici chiamati a prendere atto dell’imparabile “rivoluzione”. Un cambio di paradigma per alcuni economisti, soprattutto di area liberista, che celebrano l’incontro tra il mercato e social network per promuovere «nuove forme di welfare autogestito dall’iniziativa privata». Insomma, è la quadratura del cerchio: il comunitarismo neoliberista.

La retorica della condivisione e della comunità

Perché il file sharing per la condivisione libera di contenuti digitali è stigmatizzato come “pirateria” e oggetto dell’azione coercitiva dello Stato, mentre il subaffitto illegale ed esentasse attraverso Airbnb diventa sinonimo stesso di Sharing Economy? Le parole, come diceva Michele, sono importanti e condividere significa “dividere, spartire insieme con altri”, “avere in comune”. La cessione temporanea di un bene a titolo remunerativo corrisponde invece a un termine sicuramente meno sexy ma più comprensibile: affitto. Lo spiega bene Giorgos Kallis nel suo ottimo articolo: «Airbnb is a rental economy».

Quello che la società offre è un’accattivante narrativa che converte la banale pratica dell’affitto turistico in un’incredibile esperienza di condivisione e dialogo interculturale. L’anonima, e spesso clandestina, figura dell’affittacamere diventa una sorta di postmoderno samaritano, anzi, usando la terminologia Airbnb, un “anfitrione”.

D’altronde, responsabile globale della community Airbnb è tal Douglas Atkin, guru del marketing e autore di un libro dal titolo eloquente: The Culting of Brands: Turn Your Customers Into True Believers. Per Atkin, le marche di successo come le religioni rispondono alla stessa necessità: quella di appartenere a qualcosa. I “fedeli” vanno dunque organizzati in una comunità di membri con differenti gradi di coinvolgimento e responsabilità, e che si riconoscono attorno a dei valori da condividere. Valori da diffondere e, se necessario, difendere nell’interesse di tutti, come se si trattasse di un movimento per i diritti civili che lotta per un mondo migliore… «Businesses can be part of social change, just like nonprofits» ci avverte infatti Natalie Foster, fondatrice con Atkins di Peers, un gruppo di pressione in favore della cosiddetta economia collaborativa che conta tra i propri partners, casualmente, la stessa Airbnb e altre imprese (for profit) della sharing economy.

La retorica comunitaria di Airbnb si alimenta, inoltre, di uno dei miti “postmoderni” legati allo sviluppo della new economy, quello della disintermediazione. Internet, come denuncia Robert McChesney, si è infatti convertito in uno dei più grandi generatori di monopolio della storia economica e il caso di Airbnb, con la sua posizione chiaramente dominante nel mercato del cosiddetto housesharing, sembra confermarlo. Difficile, infatti, considerarlo come un semplice facilitatore, un marketplace a disposizione della “comunità”, se si considerano il ruolo dei suoi algoritmi di ricerca nel definire l’ordine degli annunci e lo stretto controllo sulla rete di utenti, sulle comunicazioni e le transazioni tra questi. Il modello di business si basa infatti sulla trattenuta di una commissione tra il 9 e addirittura il 15 per cento sul totale, mentre i proventi vengono tassati in Irlanda. Come già avevano fatto Google e Facebook, la società ha difatti deciso di ubicare la propria sede operativa per l’Europa a Dublino avendo questa, come spiega Chesky, uno dei tre fondatori, «a reputation for being one of the most hospitable and friendliest places in the world». Soprattutto se sei una multinazionale USA in cerca di tassazioni very friendly

Un modello di business “leggero” che le ha permesso di attirare i più importanti venture capitalists facendo lievitare la sua quotazione a venti miliardi di dollari, dietro solo al gruppo Hilton (ventidue miliardi) nel settore dell’ospitalità ma davanti a colossi come Wyndham e InterContinental.

Il caso Barcellona

Quarta città per pernottamenti, Barcellona è sicuramente uno dei principali fronti nella battaglia che Airbnb porta avanti per legittimarsi e affermarsi a livello globale. Anche qui il fenomeno è esploso negli ultimi anni guadagnandosi visibilità all’interno dell’intenso dibattito, anche elettorale, sul ruolo del turismo nell’economia e nell’ecologia della città. D’altronde, parliamo di una città che ha visto crescere il turismo in modo vertiginoso negli ultimi vent’anni fino a dipenderne per il 16 per cento, si stima, del proprio Pil. Uno sviluppo sempre più messo in discussione da associazioni di base e piattaforme di vicini che attribuiscono alla crescente pressione del mercato turistico, soprattutto quello legato al business degli appartamenti turistici, il deteriorarsi delle condizioni di vivibilità nelle aree maggiormente interessate dal turismo e la difficoltà nell’accesso al mercato abitativo. Un clima di crescente tensione che ha convinto il governo municipale a sospendere la concessione di nuove licenze per appartamenti turistici e ad aumentare controlli e sanzioni contro gli affitti illegali. Contrariamente a quanto vuol far spesso intendere Airbnb, dunque, l’attuale quadro normativo non è eredità di un passato remoto mantenuto artificialmente in vita dall’ostinazione di una burocrazia miope e ideologizzata, ma il risultato di rivendicazioni di buona parte dell’associazionismo di base.

Attualmente, il profilo legale della comunità Airbnb rimane quantomeno ambiguo. Una parte dell’offerta è composta da appartamenti con regolare licenza i cui gestori, grazie ad Airbnb, possono decidere chi accettare o meno, eludendo così il divieto per le strutture ricettive, e in generale i pubblici servizi, di discriminazione della clientela. Al tempo stesso, il fatto che una parte rilevante degli annunci sia sprovvista dell’indicazione del numero di licenza, obbligatoria per legge, legittima il sospetto che Airbnb si faccia strumento di innumerevoli pratiche illegali e, ovviamente, esentasse. Attività di cui la società non si vuole fare responsabile, ma su cui trattiene comunque le dovute commissioni. Un’ambiguità che, per esempio, ha costretto gli organizzatori del festival Primavera Sound, principale evento musicale spagnolo, a rinunciare all’annunciata collaborazione con Airbnb per le pressioni di associazioni cittadine e albergatori.

Siamo la soluzione, non il problema!

Airbnb non demorde nel suo tentativo di convincere istituzioni e opinione pubblica della necessità di deregolamentare il settore per accogliere il proprio modello di ospitalità. Come per altre città, la società ha commissionato uno studio d’impatto per dimostrare come il modello generi processi virtuosi rispetto alle implicazioni negative prodotte dall’offerta turistica convenzionale. Per la serie: siamo la soluzione, non il problema.

La tesi si poggia sull’assunto che Airbnb attrarrebbe un profilo di turista con un approccio alla destinazione alternativo, più “sostenibile”. L’interesse per esperienze “autentiche” lo porterebbe infatti a muoversi “off the beaten track”, lontano dalle enclavi turistiche, favorendo così una migliore distribuzione dei flussi turistici e relativi consumi verso altri quartieri, con un impatto positivo sul tessuto commerciale locale.

Non disponendo di dati significativi sulla domanda (Airbnb su questo punto è a dir poco opaca), con Albert Arias abbiamo realizzato un lavoro di analisi dell’offerta a livello di quartiere, basandoci sugli annunci pubblicati e i profili di utenti collegati (maggio 2014). Contrariamente a quanto suggerito, tra l’offerta Airbnb e quella alberghiera risulta una chiara correlazione nella distribuzione a livello di quartiere, con la prima che presenta un grado di concentrazione addirittura superiore rispetto alla seconda. Basti pensare che il solo centro storico raggruppava ben 3830 annunci, equivalenti ad un terzo (32.8 per cento) di tutta l’offerta Airbnb, contro il 26.8 per cento dei posti-letto del settore alberghiero. Di questi, ben 2495 sono appartamenti interi, buona parte illegali dal momento che le licenze nel distretto sono state bloccate a quota 614.

Il “sostegno alle famiglie” è un altro asse tematico attorno cui si sviluppa il report. Secondo lo studio, Airbnb consentirebbe a un 44 per cento degli anfitrioni di “arrivare a fine mese”, mentre addirittura un 53 per cento manterrebbe la propria abitazione grazie ai proventi dell’affitto turistico. In una città dove nel 2014 si sono ordinati una media di quindici sfratti al giorno, è facile immaginare come affermazioni del genere possano avere un certo impatto sull’opinione pubblica. Il messaggio è chiaro: di fronte alla crisi che avanza e al welfare che arretra, Airbnb e il turismo diventano l’ancora di salvataggio a cui aggrapparsi. Lo Stato, invece di far valere “anacronistiche” regolamentazioni a tutela, per esempio, dei consumatori, dovrebbe permettere a tutti di mettere a reddito la propria intimità domestica e vendere “esperienze” ad uno sconosciuto, trasformando il focolare domestico in albergo o ristorante. Insomma, si salvi chi può! Ma chi può?

La narrazione dicotomica “comunità locale vs lobby alberghiere”, che ricorda un po’ il “we’re the 99%”, banalizza la complessità sociale della città. Non tutti hanno i numeri per accedere alla mitica “community” e potervi competere. Non può chi non ha stanze o appartamenti da affittare. Non possono competere, inoltre, quelli che non hanno da offrire alloggio nelle aree centrali o nei quartieri alla moda, a meno di non disporre di un ex capannone industriale trasformato in loft, con interni minimal e design d’autore.

A ben guardare risulta difficile anche parlare, come fa Airbnb, di famiglie quando il grosso dell’offerta è rappresentata, nel migliore delle ipotesi, da persone singole senza figli a carico o, in altri casi, da agenzie e gestori di appartamenti turistici. In questo senso, un altro elemento emerso dall’analisi è la chiara prevalenza, tra gli annunci, d’intere proprietà (58.1 per cento; 65 per cento nel centro storico) venendo così meno, l’elemento differenziale dell’offerta Airbnb: la condivisione di spazi e l’interazione con il “local”. Analizzando poi un campione di appartamenti interi offerti nel Raval, popolare quartiere del centro storico e principale bacino di alloggi Airbnb, risulta abbastanza indicativo il fatto che a ogni anfitrione corrispondano una media di quattro annunci. Una minoranza (42,7 per cento), di questi è associato a un solo appartamento mentre un 40 per cento ha tre o più annunci, 18 per cento più di cinque.

Chiamato a palliare le conseguenze di un sistema in crisi, il modello sembra invece favorire le stesse logiche speculative che hanno trasformato la città postindustriale, dietro le accattivanti suggestioni della Creative e della Smart City, in un generatore di rendite. La Sharing City di Airbnb non fa altro che spingere, dietro la retorica comunitaria, verso un’ulteriore deregolamentazione del mercato immobiliare in un momento storico dove la questione abitativa è tornata di drammatica attualità. Una proposta nella migliore tradizione neoliberista che, se da un lato consente effettivamente di ampliare il numero di attori all’interno del mercato turistico, dall’altro beneficia soprattutto i soliti noti: il settore immobiliare e il capitale finanziario internazionale. Ciò a discapito di chi non può o semplicemente non vuole entrare nella community ma è tenuto a confrontarsi con l’iniqua concorrenza del mercato turistico, rendendo così ancor più netta la geografia della diseguaglianza socio-economica della città. Insomma, l’idea di un modello win-win dove tutti hanno da guadagnarci, del “welfare gestito dall’iniziativa privata”, non convince anche perché ad esserne escluse sarebbero proprio le fasce più bisognose, quelle che una o più rendite da far fruttare non hanno. Se l’intenzione rimane quella di ridistribuire la ricchezza prodotta dal turismo e gestirne le esternalità, allora la fiscalizzazione e la pianificazione delle attività turistiche diventano il vero strumento in mano alla comunità. Bisogna pensarci bene, una volta accolto e legittimato il modello Airbnb, non si torna più indietro.

Bibliografia

Douglas Atkin, The Culting of Brands: Turn Your Customers into True Believers, Portfolio, New York 2004.

*tratto da lavoroculturale.org