editoriale

15 aprile 1989, Pechino, Repubblica Popolare Cinese, piazza Tienanmen

Muore per un’improvvisa crisi cardiaca Hu Yaobang, controverso esponente della leadership comunista. La sua carriera e la sua presenza sulla scena politica del grande paese sono state, a loro modo, esemplari

Dirigente della Lega giovanile comunista dagli anni Trenta, considerato all’epoca uno dei delfini di Mao Zedong, ha successivamente stabilito stretti legami con Deng Xiaoping. Membro del Comitato centrale del Partito dal 1956, perde ogni carica nel 1967, nel corso della Rivoluzione culturale. Riabilitato dieci anni dopo, torna a stringere un’alleanza ancora più solida con il gruppo di Deng. Frutto di una tale alleanza è l’estromissione da ogni carica e ogni forma di potere di Hua Guofeng e degli ultimi esponenti della “sinistra” maoista. Grazie soprattutto a tali meriti, Hu diviene, alternativamente, segretario generale o presidente del PCC sino al gennaio del 1987, quando, nel quadro di una campagna contro il “liberalismo borghese” è costretto a dimettersi. Questo alternarsi ripetuto di momenti di gloria e di malasorte politica ha contribuito non poco a consolidare intorno al suo nome e alla sua immagine una fama di governante “illuminato” e di politico moderato e aperto alle riforme.

La sua fine suscita commozione e ha notevole risonanza soprattutto tra gli studenti della capitale, che già dalla stessa sera dell’annuncio si radunano in massa sulla Guǎngchǎng, la grande piazza, cuore della nazione cinese e della sua storia, su cui si affaccia la Tienanmen, la Porta della Pace Celeste del Palazzo Proibito. E la commemorazione del leader scomparso diventa subito protesta contro il governo e la leadership del Partito: è proprio il PCC, chiedono gli studenti e le masse che continuano ad affluire sulla piazza, che deve immediatamente riabilitare il dirigente scomparso e porlo nel pantheon “rivoluzionario” del paese, recuperando nel contempo la sua lezione politica e riaprendo il ciclo di riforme da lui iniziato.

Una richiesta che il partito e i suoi leader non possono certo accettare o anche sottoscrivere in piccola parte, anche se il vertice dell’organizzazione non è così compatto e monolitico come vorrebbe apparire all’esterno, in tutto il paese e sulla scena internazionale. Il Segretario generale Zhao Ziyang, sembra infatti propenso a una soluzione moderata della crisi in corso, mentre da subito favorevole a una linea dura di immediata repressione si mostra il primo ministro Li Peng. Alcuni sporadici scontri con la polizia portano a una moltiplicazione della protesta e all’accorrere sulla Piazza di folle sempre più fitte di manifestanti: accanto agli studenti universitari appaiono i primi gruppi di operai e di semplici cittadini.

Accanto agli slogan e alle parole d’ordine iniziali, nascono altre voci, sempre meno timide, che invocano salari più alti, meno lavoro e sfruttamento, più case, meno oppressione da parte del partito e dello stato, più libertà personali e civili. È il 22 aprile, a sette giorni dal primo raduno, che la crisi di Tienanmen si avvia a diventare irreversibile. I manifestanti, ormai decine di migliaia, tornano fittissimi davanti alla Grande Sala del Popolo, nonostante le autorità abbiano annunciato severe punizioni. Gli studenti chiedono di incontrare il Primo ministro: ma per tutta risposta, ottengono un netto rifiuto. Contemporanea, parte sui mass media di regime un’operazione di totale censura nei confronti degli eventi in corso. La risposta degli studenti è altrettanto netta, con la proclamazione di uno sciopero generale all’Università di Pechino. Ha inizio un braccio di ferro che avrà esiti drammatici. Non porta alcun allentamento della tensione la visita ufficiale che a maggio compie a Pechino Michail Gorbačëv, il leader sovietico della glastnost’ e della perestrojka.

In meno di due mesi, grazie anche a un placet informale del vecchio Deng Xiaoping, si arriverà alla violentissima repressione armata dei primi di giugno. Poco si sa delle vere proporzioni di quello che viene comunque indicato come un massacro: le fonti ufficiali hanno ammesso controvoglia un massimo di duecento morti. Da parte degli oppositori del regime, ci si è spinti sino a parlare di dieci, dodicimila vittime. Cifre, entrambe e a loro modo. In Cina, comunque, anche oggi di Tienanmen e dei “fatti” dell’89 è severamente proibito parlare e l’evento è ancora oscurato. Da rilevare nel tempo un unico episodio difforme e in controtendenza: la riabilitazione nel 2010 di Hu Yaobang.

Nel mondo occidentale, è assurta a simbolo troppo carico dell’accaduto la pur straordinaria fotografia del Rivoltoso Sconosciuto, solo e immobile di fronte a una fila di carri armati, scattata da Jeff Widener, dell’Associated Press. Un’ultima considerazione, ineludibile: nel 1989, crollano uno a uno tutti i paesi a regime socialista. Un processo inarrestabile, che culmina nel novembre con l’abbattimento del Muro di Berlino.

 

Film e libri

La Rivolta fa da sfondo a Summer Palace, un film del 2006 diretto da Lou Ye, che racconta le vicende di una studentessa che lascia la provincia per andare a studiare all’Università. Per chi voglia avere uno spaccato della vita delle classi elevate nella Cina di prima delle guerre di invasione e della rivoluzione, rimane straordinariamente bello e interessante Lanterne rosse, diretto nel 1991 da Zhāng Yìmóu. Da segnalare anche dello stesso regista Lettere di uno sconosciuto, del 2015. Sommario didascalico e ampolloso della storia cinese dai primi del Novecento sino alla rivoluzione culturale rimane L’Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci.

Nella capitale del dopo Tiananmen vive Chun Shu, autrice e protagonista de La ragazza di Pechino (Ed. Tea), romanzo autobiografico.