editoriale

Non è solo una questione di femminicidio

Oggi tutte le donne vivono delle piccole violenze quotidiane, perpetuate come normalità. Ciò che interessa ribadire questo 25 novembre – giornata mondiale contro la violenza sulle donne – è che questo non è un problema semplicemente delle donne, ma deve interrogare la società tutta nel suo insieme.

“L’amore non è assoluto e nemmeno eterno, e non c’è solo amore fra uomo e donna, possibilmente consacrato. […] Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. […]. Studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali…E poi ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore […], rassegnazione.” Goliarda Sapienza, L’arte della gioia


Tacita Muta era una dea infera onorata presso i romani. Tacita è la dea del silenzio, Muta appunto. Zitta due volte. Ovidio (Ovid. Fast. II, III) ci narra la sua storia: in principio si chiamava Lara (dal greco laleo = parlare ). Lara parlava, svelava i suoi pensieri, comunicava, ma secondo l’opinione pubblica, la parola non rientrava fra le virtù femminili. “Alla donna il silenzio reca grazia”, scriveva Sofocle (Soph. Aj., 293) Nello status di donna nella società romana non rientrava la facoltà di usare parola, di dimostrare le proprie tesi dunque, in sostanza di avvalersi di uno strumento di affermazione e di lotta politica.

Tacita osò svelare l’amore che Giove provava per lei. Per questo le venne prima strappata la lingua, poi fu violentata da Mercurio, cui era stata affidata nella sua discesa agli inferi. Questo mito ci svela un dato che doveva essere assunto dalla società tutta: Lara era stata punita perché parlava, e parlava a sproposito perché era donna. Le cronache quotidiane ci ricordano che in Italia ogni giorno viene uccisa una donna, semplicemente perché donna. Perché si oppone e reagisce, perché tenta di svincolarsi da relazioni che incatenano o, magari, perché decide di dire no … insomma, perché si autodetermina.

E’ stato coniato il termine “femminicidio” per sottolineare e isolare il fenomeno, per non lasciare che passi inosservato un mirato e volontario atto di smantellamento della libertà e dignità della donna: gli atti di prevaricazione, i maltrattamenti, la violenza, sia essa di natura sessuale, psicologica, sul lavoro, economica, negli spazi privati e in quelli pubblici, interrogano la società in tutti i suoi strati, in tutta la sua complessità: palesando cioè un problema di natura strutturale, culturale, tutt’altro che emergenziale! Ancora, mettono in evidenza un fenomeno (quasi per nulla tematizzato dai diretti interessati) che potremmo genericamente definire come una vera e propria crisi del maschile.

Non c’è delitto passionale che tenga. La passione non c’entra con la possessività, il controllo e l’assenza di garanzie. Si tratta di crisi, di insicurezza che si tramuta in violenza, in odio di genere. I compagni o gli ex compagni non riescono ad accettare nella maggior parte dei casi la fine di una storia o l’abbandono. Ma questi non sono semplici fatti di cronaca nera, come ce li raccontano i giornali, tanto meno sono piccole vicende di degenerazione familiare come tentano di farle passare i talk show quotidiani del primo pomeriggio. Non sono delitti passionali dove il problema è il troppo amore, come tanto piace raccontare a Barbara d’Urso e colleghi/e, che con i loro programmi costruiscono narrazioni inquietanti, condite di perversi toni voyeuristici, col solo scopo di vendere anche la violenza, trasformandola in entertainment. In questo senso la rappresentazione mediatica della violenza sulle donne sostenta e nutre l’opinione comune che serpeggia nel quotidiano.

Al contrario Il femminicidio ci parla della degenerazione delle relazioni sociali ed affettive nella nostra società. Nonostante la famiglia tradizionale non sia più un modello reale ma un fragile e artificioso schema, essa continua ad esserci imposta come unico modello relazionale di riferimento. Un mito che serve a “giustificare” la funzione sociale ed economica del welfare familiare, unica fonte di sostegno economico nel contesto della crisi. Anche se le relazioni tra i sessi sono in continua traformazione e non più semplificabili a partire da una definizione unica e ben perimetrata, il solo modello che sembra esserci proposto è ancora quello della “coppia monogama eterosessuale”. L’ordine del discorso vigente continua a marginalizzare stili e forme di vita altri, portatori di nuove possibilità di relazione.

Nell’Italia (forse non ancora) post-berlusconiana c’è forse da chiedersi quale sia lo statuto relazionale che vige tra uomo e donna e, più in generale, tra i generi. Basti pensare alla vicenda delle baby prostituite romane, agli ultimi casi di adolescenti omosessuali che danno voce al loro disagio attraverso il suicidio e alle narrazioni che sono state costruite ad hoc attorno a questi fatti, per comprendere che il tema delle relazioni e della loro rappresentazione non può più essere liquidato in termini “emergenziali”. In un paese in cui la discriminazione sul lavoro per le donne è in aumento (l’Italia è al 124° posto per la disparità salariale tra uomo e donna), in cui le strutture del welfare vengono smantellate e la legge 194 sull’aborto continuamente minacciata, non è forse la stessa autodeterminazione delle donne a essere messa in discussione?

Nonostante il problema sia per sua natura strutturale e necessiti, dunque, di tempi lunghi di discussione, di mobilitazioni e pratiche politiche tanto radicali quanto efficaci, del rifinanziamento effettivo dei centri antiviolenza, dell’attivazione di politiche di prevenzione e di tutela, la risposta di questo governo è stata un decreto legge (n. 119/2013) basato sull’emergenza. Approvato in tempi record, questo decreto, nell’avvalersi del termine femminicidio, ne confonde il senso, individuando ancora una volta nella figura della donna un “soggetto debole”, da controllare e difendere perciò, in quanto tale, in termini esclusivamente securitari. Il problema del femminicidio, con tale decreto, è stato utilizzato come copertura per un vero e proprio pacchetto sicurezza, che vede al suo interno da misure di inasprimento legate alle lotte contro la Tav fino a questioni che riguardano la Protezione Civile o il commissariamento delle Province. Chi vi si è opposto è stato tacciato di essere contro le donne tout court, nonostante questa legge aggiri il problema reale e si ponga come unico scopo il potenziamento del controllo e delle pene, se non la messa in discussione della stessa libertà femminile (è il caso del noto articolo sulla irrevocabilità della querela).

Tante sono dunque le questioni che rimangono irrisolte: prevenire la strutturazione di stili relazionali che possono determinare la precipitazione in comportamenti violenti; grarantire alle donne che denunciano la possibilità di abbandonare il contesto in cui vivono, motivo di rischio per la loro salute e fisica e psicologica; attivare politiche di prevenzione e sensibilizzazione già a partire dalle scuole… questo, solo per citarne alcune. La legge che è stata approvata rappresenta l’ennesimo tentativo di affrontare il problema in termini esclusivamente emergenziali e, quindi, securitari, tenendo fuori o ritenendo marginale tutto ciò che accade nella vita reale e quotidiana delle donne in questo paese. Seguendo il percorso degli ultimi eventi, la stessa dinamica si riproduce rispetto al fenomeno delle “baby prostitute”. La questione importante diventa l’affermare, il definire, il giudicare (possibilmente in termini moralistici) “cosa” sono le ragazze minorenni coinvolte nel giro di prostituzione dei Parioli e dare luogo a una narrazione mediatica che, spesso e volentieri, non ripropone altro che la vecchia dicotomia, tutta ideologica, tra la donna-vittima impotente e la donna-virago seduttrice e manipolatrice.

Più sicurezza, più polizia (non serve nemmeno ricordare i drammatici episodi di stupri e violenze nelle caserme), non risolveranno un problema che è in prima istanza storico, culturale e sociale. Oggi tutte le donne vivono delle piccole violenze quotidiane, perpetuate come normalità. Ciò che interessa ribadire questo 25 novembre – giornata mondiale contro la violenza sulle donne – è che questo non è un problema semplicemente delle donne, ma deve interrogare la società tutta nel suo insieme. Non basta dire “Io No” come recita la campagna della Regione Lazio contro la violenza sulle donne. Non bastano i comportamenti e “l’impegno” degli attori e degli uomini più consapevoli (come se poi non esercitare violenza su una donna, non dovesse costituire la normalità, ma richiedesse invece, da parte degli uomini, addirittura un impegno difficile, duro e tenace!) Per citare una battuta tratta dal film We want sex: “non bere, non menarmi, non usarmi violenza, non ti rende un buon compagno, è solo il minimo che tu possa fare”