editoriale

Mettere a norma

Breznev, nel 1968, “normalizzò” la ribelle Praga riportandola agli standard del socialismo reale. Franceschini e Marino, nel 2014, intendono “mettere a norma” il Teatro Valle occupato, sanando una situazione “illegale” con lo sgombero consensuale o meno degli occupanti.


Avvertiamo la differenza fra i carri armati sovietici e i blindati della PS e dei CC, ma il linguaggio ha il suo peso. Già “normalizzare” era un eufemismo rispetto all’imperativo eterno del potere di “riportare l’ordine”, peraltro con tutta la brutalità penetrante e biopolitica della traslazione dalla violenza quotidiana sui comportamenti “devianti” alla violenza di Stato; mettere a norma è un eufemismo ancor più tecnocratico, che abbraccia tanto l’omogeneità alle regole Ue sugli impianti elettrici quanto la conformità alle regole neoliberali di mercato e concorrenza.

Il Valle, infatti, dovrebbe essere riconsegnato a qualche indefinita autorità (Comune o Ministero o Sovrintendenza) per procedere in santa pace ai lavori di messa a norma degli impianti ed eventuale restauro architettonico, fuori di scusa e di metafora per essere reinserito (quale attività o sua lacuna) nel miserando meccanismo spettacolar-mercantile del teatro di Roma – magari fosse Broadway! L’essenza è, in gradi diversi di arbitrio e di forza, la consueta logica poliziesca: non c’è niente da vedere, circolate, sgombrate sogni, desideri, pretese, sgombrate le piazze e le strade, gli spazi sociali e i teatri. Troveremo qualche residence per gli sfollati, purché normodotati.

Che la “sinistra” diventi paladina della normalità-normalizzazione, che si faccia carico della banalità dell’ordine, non è proprio inedito (all’epoca il socialismo reale sovietico svolgeva il ruolo di “sinistra” internazionale), oggi però il tono soft delle pratiche normalizzatrici si sposa meglio con il concetto, che è quello di una manutenzione continua e repressiva più che di un brutale intervento diretto. La vaselina è spalmata a piene mani, per esempio l’ultimatum di sgombero viene accompagnato dalla proposta (peraltro non ancora formalizzata) di una “partecipazione” a future attività del teatro normalizzato – quando? Magari fra dieci anni, con i tempi del restauro del Petruzzelli di Bari o, per restare alla prassi romana, del completamento della linea C della metro. Circolate, poi vi daremo le registrazioni delle videocamere di sorveglianza.

Un altro apprezzabile nesso logico-linguistico è il rapporto fra il “semplificare” legislativo e il “mettere a norma” esecutivo (poliziesco). Non a caso il governo Renzi, rompendo ogni indugio delle precedenti amministrazioni statali e comunali, ha preso (con dichiarazioni del leader sin dal giorno dell’insediamento) due grosse iniziative parallele in materia culturale: metter fine allo scandalo dell’occupazione del Valle e metter fine al potere di interdizione della Sovrintendenze sugli scempi territoriali, de-finanziandole, degradandone collocazione gerarchica e poteri e privilegiando la gestione manageriale (mcdonaldiana o eatalyana, si vedrà) di venti musei privilegiati. Dare un esempio e fare cassa, nella vecchia logica craxi-demichelisiana dei “giacimenti culturali”.

Beninteso, questo progetto non è privo di contraddizioni, come testimonia la riluttanza di Renzi ad approvare in CdM la riforma franceschiniana dei beni culturali, considerata ancora troppo statalista e preservazionista. Altre contraddizioni similari si presenteranno, magari in connessione con la travagliata negoziazione del Trattato di libero scambio fra Usa e Ue (TTIP), sul tema Ogm: di qui le incipienti tensioni fra Renzi e gli sponsor ideologici Petrini e Farinetti, di qui l’oscillazione fra una gestione manageriale dei musei alla McDonald’s o all’Eataly, fra Cinecittà disneyana all’Abete e restauri appaltati a Della Valle (ultimamente assai tiepido verso il Grande Riformatore).

La “semplificazione” renziana sostitutiva della “rottamazione”, al di là dagli effetti retorici, significa esenzione neoliberale dai “lacci e lacciuoli” residui della fase keynesiana per imporre a forza il principio di concorrenza nell’area pubblico-statuale, smantellando vincoli ambientali e sindacali ed esorcizzando qualsiasi prospettiva di beni comuni. Per questo c’è una profonda affinità fra la svendita del patrimonio pubblico, statale e comunale, e la mercificazione dei beni ambientali, archeologici, teatrali, che in realtà è la prosecuzione più esplicita e radicale della troppo celebrata cultura veltroniana: non a caso l’assessore capitolino che formalmente ha in mano il destino del Valle è una burocrate veltroniana riciclata.

Per questo la battaglia degli occupanti e della Fondazione avrebbe dovuto porsi a livello della sfida, che è Renzi-Franceschini, non il fantasma comunale Marino e i suoi funzionari, e muoversi insieme a tutte le altre occupazioni, romane e non, del patrimonio abitativo e sociale, risposta simbolica e materiale all’ideologia e alla pratica della privatizzazione. A rischio pure di spaccare la vischiosità di una sinistra culturale attardata nel mito di Berlinguer e Veltroni, dell’austerità e flessibilità “buona”, della subalternità a un mercato asfittico, al dominio dell’invenduto artistico e abitativo. Può darsi che le forze non bastino per questa battaglia, ce ne saranno altre.

 

*da Alfabeta2