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CULT

La poesia della strada, il cobra e i cotillions

Proseguiamo il dibattito su spazi sociali e produzione culturale indipendente

Ho visto le menti migliori della mia generazione dimenarsi divertite e compiaciute sulle note del “Ballo del qua-qua” in un centro sociale pieno di gente e di alcool. Ho sentito l’attacco epico di London Calling (The Clash) aprire una nota trasmissione radiofonica di un gruppo ultras dalle chiare affinità fasciste.

Ho visto e ascoltato il concerto di una delle migliori band indipendenti italiane, i Massimo Volume, in uno dei locali più “in” del circuito romano, più simile a un container che a uno spazio di musica live, con soffitti che non arrivano a tre metri, un mini palco su cui ci si pesta i piedi, un set luci da interrogatorio di polizia, un fonico-prestigiatore che inventa corridoi umanitari per i suoni, ingaggiando ogni sera una battaglia personale contro risonanze, rientri, feedback.

Queste tre esperienze personali, vissute nel giro di pochi giorni, mi aiutano a raccogliere la palla lanciata da Andrea Cegna , in una riflessione senza rete e senza scorciatoie su produzione culturale, spazi e circuiti più o meno indipendenti.

Facciamo un salto all’indietro, dove tutto si è concluso e tutto è cominciato, i “maledetti” anni Ottanta. E sgomberiamo il campo da equivoci: qui nessuno può dichiararsi innocente.

Dovevamo sopravvivere a Reagan, alla sconfitta operaia, al riflusso e alla repressione, all’eroina, alla fine del sogno sovversivo, ai deliri di Craxi e Martelli, all’edonismo proprietario del “tutti contro tutti”, all’incubo nucleare. Qualcuno, nel suo piccolo, doveva difendersi anche dai razzi sparati in curva e dal tradimento dei propri idoli in mutande che facevano a pezzi l’ultima trincea di passione collettiva sopravvissuta ai “mitici” anni Settanta. Non si poteva andare per il sottile, niente fioretto, ci serviva lo sguardo animale in bianco e nero. Ognuno sceglieva (o doveva scegliere o pensava di scegliere, non importa) la propria barricata, senza tanti distinguo, a scuola, per strada, nei bar, nei posti di lavoro (per quello che significava ancora questo concetto).

Dovevamo vivere nella società dei lustrini e della dittatura del “look”. E allora decidemmo di difenderci, curando i dettagli dei vestiti che indossavamo e della musica che ascoltavamo. Ognuno la sua parte: dalla nostra, l’underground, le “controculture” punk, dark, new wave, reggae, i primi vagiti elettronici e, da li a poco, le prime Posse; dall’altra, le canzonette di merda, Sanremo, Festivalbar, Superclassificashow, la vandea restauratrice dei Magalli, Vespa, Zanicchi, Comunione e liberazione, Papa Wojtyla, quello che si affacciava dal balcone con Pinochet. “Maledirai la Fininvest, maledirai credit cards”, cantava un signore dell’Emilia paranoica che sapeva leggere bene il proprio tempo ma non sapeva scegliere altrettanto bene la direzione, (San) Giovanni Lindo Ferretti.

Nei concerti di Joe Strummer (quello indimenticabile del 1990, organizzato dalla Fgsi, i giovani socialisti..) o dei Kortatu, come in quelli dei Cccp o dei Diaframma, si gridava orgogliosi “chi non salta Jovanotti è”. Lorenzo Cherubini era il simbolo del male, il nemico del popolo. Semplice, chiaro, confortante.

A cavallo dei Novanta, l’avvento delle Posse ha la forza di un’ onda in piena, la scoperta di un nuovo alfabeto e di una nuova grammatica che accompagna l’esplosione degli spazi sociali. L’occupazione come necessità di riprendere a esistere, partendo da quello che si è: la prima generazione con il futuro alle spalle, che avrebbe vissuto condizioni peggiori rispetto a quella precedente. Il rap, il combat rock e il revival ska compongono la colonna sonora, la rottura della rappresentanza sul terreno dell’immaginario e della produzione culturale antagonista. Le parole giuste per raccontare la vita: un concerto dei 99 Posse sulle macerie del Corto Circuito appena incendiato, i Mano Negra e gli Assalti frontali al Forte Prenestino, la Banda Bassotti all’ex cinema Puccini di Casalbertone, le “sirene blu” dei Red House da San Basilio.

Ma la lezione punk del ‘no future’, del DIY, della rottura dei paradigmi del ‘900 consegnano a quella generazione armi culturali del tutto nuove, impossibilitate a lungo a mantenersi estranee o separate dall'”industria culturale”, divenuta nel frattempo “industria” tout court, visto che i saperi, i linguaggi, le conoscenze, gli stili di vita – anche e soprattutto quelli di rottura – definiscono il campo comune tra produzione di immaginario e produzione economica.

Gli spazi occupati, quasi sempre inconsapevolmente, diventano anomali “incubatori di imprese”, laboratori di autoformazione e apprendistato per centinaia di artisti, attori, musicisti, tecnici, pr, giornalisti, videomaker, agenti sui generis, scrittori, attacchinatori, hacker, smanettoni, dj, vj, operatori culturali, tatuatori, montatori di palchi e via di questo passo. A fianco, intorno, sotto e sopra, un “indotto produttivo” composto da uno stuolo di personaggi più o meno credibili, naif, bizzarri, scoppiati, affascinanti. Si rompono i vincoli proprietari della musica e dell’arte, i pirati urbani affermano una cooperazione sociale libera e creativa che invade la società tutta.

Le cose a un certo punto cominciano a complicarsi, si mischiano i piani, ma l’internità militante di tante esperienze artistiche continua a garantire una “dialettica” virtuosa tra “identità antagonista” e spazio pubblico di espressione, nonostante le prime incursioni nella produzione mainstream. Si ripensano stili e linguaggi, l’azione politica rompe ritualità e retoriche “di movimento”, alla ricerca di una socialità prosaica, conviviale, post ideologica. Emerge con forza la necessità di farla finita con la marzialità di certe narrazioni di famiglia, soprattutto sul terreno culturale.

La vecchia talpa con la cresta e le borchie rompe gli argini, e lo fa in due direzioni apparentemente schizofreniche: da una parte, le parole si trasformano in suoni, bit, rumori, linee ossessive di cassa e basso, ricerca nomade di taz metropolitane. Una moltitudine apolide decide di ballare sull’orlo del disastro, cercando un senso nelle cattedrali industriali che un tempo officiavano il rito del sacrificio umano al lavoro salariato. Dall’altra, si prova a dissacrare e rilassare l’evento collettivo, si fa il verso alla “cultura di massa”, si riprendono le parole più o meno vacue dell’immaginario di plastica esploso tra i Settanta e gli Ottanta, le sigle dei cartoni animati giapponesi che avevano riempito i pomeriggi del dopo scuola spesi ad aspettare gli adulti impegnati nella rivoluzione, le canzonette che fischiettavamo nelle domeniche vuote e annoiate, le liriche cuore-sole-amore che, in solitudine, sotto la doccia, tutti abbiamo cantato almeno una volta nella vita.

L’invenzione della Torretta Style rappresenta, per molti versi, la possibilità di un “outing” generazionale, una sorta di seduta psicanalitica di massa, un processo di liberazione da tabù e rigidità, che rompe definitivamente l’ultimo diaframma tra “cultura indipendente” e “cultura commerciale”. E ci scaraventa li, nel mezzo del vortice dello spettacolo globalizzato che mastica tutto, che sussume tutto ma che si fa anche cambiare, e che oggi può tenere insieme l’omaggio ai Clash delle Olimpiadi inglesi e le gag di Elio-Arisa nella fabbrica dei sogni di X Factor. Il recinto è spalancato, il fuori ci insegue canticchiando “Cicale” e “Gioca jouer”. E in queste serate febbrili di cobra, macarena e (tanz) bamboline, capita di vedere militanti, più o meno attempati che, tra uno spritz e un vodka lemon, si guardano di soppiatto con un ghigno irrequieto. Tentennano, ma le loro facce parlano più di un comizio. Sembrano chiedersi: è questo quello che volevamo?

In questo corto circuito di significati, in questo delirio comunicativo, qual è lo stato della “cultura indipendente”, gli immaginari, le narrazioni che si producono o che si promuovono o che si ospitano negli spazi sociali? Ma pensandoci bene, è questa la domanda giusta che dobbiamo farci?

Se ci fermiamo a Roma, questa provincia che non ne vuole sapere di diventare metropoli, siamo costretti a tornare all’inizio, aggiungendo una specifica sul cattivo rapporto con ciò che definiamo genericamente musica rock, indie, post punk. Storicamente, a parte alcuni spazi (il Forte Prenestino su tutti) e alcuni generi specifici (punk, hardcore), questa offerta non ha mai attecchito, a differenza dei circuiti nazionali del nord e del nord est. Restando ai nostri giorni, basta pensare al giro de La Tempesta, alla Garrincha Records, alle etichette indipendenti di nuova generazione che propongono di nuovo band chitarra-basso-batteria poco scolastiche.

Un disco straordinario come “Conflitto”, del 1996, nato dall’incontro tra la poetica di strada di Militant A e il post rock dei Brutopop, che ha venduto decine di migliaia di copie e che ci ha fatto sentire per un attimo nella East coast dei Fugazi o nella Los Angeles dei Rage against the machine, avrebbe meritato più gloria, avrebbe dovuto aprire un’autostrada nella produzione e nell’offerta musicale di questo genere. E invece no. La dittatura di certo reggae e hip hop dozzinale, per non parlare del tarlo micidiale del revival “etnico”, hanno rimesso le cose in ordine, nella periferia dell’impero.

Recentemente, se non fosse per alcune isole felici, Angelo Mai e Teatro Valle in primis, non avremmo potuto assistere ad eventi rock di grande qualità, penso al rifacimento dei Joy Division di Angela Baraldi e Giorgio Canali o al concerto supersonico del Teatro degli Orrori o alle jam session notturne di Agnelli e soci. Di riflesso, nel corso degli anni, si è ristretta la qualità dei circuiti musicali ufficiali: spazi piccoli e inadeguati, troppo costosi o, in casi rarissimi, perfetti come l’Auditorium, ma fuori dalla portata della fruizione di massa.

Il punto è capire se gli spazi vogliono attestarsi sul patrimonio che hanno costruito, generato o contribuito a generare, rimanere impigliati nella registrazione dell’esistente, nell’autogestione del piccolo cabotaggio, inseguendo passivamente le inclinazioni più comode del pubblico, magari per comprensibili esigenze di autofinanziamento. Nelle maglie delle occupazioni di nuova o vecchia generazione, nascono e crescono una leva di muscisti, band e crew che dovrebbero essere tutelate e valorizzate. Molto si muove nella scena hip hop, peccato che a volte ce ne curiamo poco. A Roma il rimpianto più grande si chiama Empatia Venefica, due giovanissimi talenti cresciuti a pane e occupazioni, esplosi ed eclissati nel giro di un paio d’anni. Per loro era già pronto il testimone glorioso dei Colle der fomento.

Oggi occore capire se questo patrimonio, che ha mutato l’offerta culturale generale, calmierato i prezzi di accesso a tante manifestazioni, prodotto professionalità e occasioni di lavoro, condizionato le politiche pubbliche, debba restare in un limbo precario o scommettere su un’ipotesi “costituente”, che guarda alla metropoli come terreno complessivo di attacco e definizione delle politiche culturali.

Le questioni allora si intrecciano, e da questa consapevolezza dovremmo ripartire. Per capire davvero se il successo delle serate “trash” esprime la la maturità di un’aggregazione che sa giocare con intelligenza con la spazzatura (sapendo che il gioco è una cosa seria), oppure rispecchia semplicemente un vuoto di proposta, di cultura, di linguaggio. Se la coda lunga dell’esperienza dei free party vive ancora in una scommessa di liberazione o rappresenta soltanto il suo triste simulacro, segnato da egoismo, nichilismo e interessi privati. Se è accettabile o meno, anche dal punto di vista di una dimensione europea da rivendicare, abitare una città che non offre spazi all’altezza di un circuito artistico e culturale degno di questo nome, che proprio per queste ragioni continua ad attraversare in modo tangente la nostra città.

I centri sociali, i teatri e gli spazi occupati, ancora oggi, rappresentano spesso l’unico ponte che ci tiene ancorati all’orizzonte continentale, esperienze pilota ma diffuse di produzione culturale, welfare, servizi. Si tratta di capire se questo patrimonio ha il coraggio di riaprire una ricerca né marginale e né massificata, immaginando il diritto alla cultura come diritto alla città.

Perché non vogliamo tornare nel ghetto, ma nemmeno ritrovarci improvvisamente a ballare la lambada.