editoriale

La metropoli ha fatto strike

Una presa di parola corale contro l’austerità, è la posta in gioco dello sciopero sociale in programma domani.

Era tempo che il sin­da­cato si muo­vesse. Chi ci cre­deva più? Non si com­pren­deva come, nel Sud euro­peo, solo in Ita­lia non ci fosse una sol­le­va­zione con­tro l’austerity, con­tro il disa­stro sociale impo­sto alla classe ope­raia ed alla mol­ti­tu­dine dei lavoratori.

Tor­ture e mas­sa­cri ordo­li­be­rali sul corpo della forza-lavoro, minacce di guerra ai bordi dell’Europa — ma in Ita­lia si sem­brava stor­diti dalle ciarle di Renzi, con­fusi dai lazzi di Grillo, e imbam­bo­lati dalle grevi minacce del Pre­si­dente. E i sin­da­cati sem­pre fermi. Fino ad atten­dere pas­si­va­mente che domani l’indignazione dei poveri fosse recu­pe­rata da nuove mac­chine pro­pa­gan­di­ste? Anti-europee, cor­po­ra­tive, fasci­ste sul bina­rio delle loco­mo­tive lepe­ni­ste sca­gliate con­tro la resi­stenza allo sfrut­ta­mento sociale?

Il sin­da­cato infine si muove. E se, non som­mes­sa­mente, da un lato chiede ai nuovi poveri, ai pre­cari, agli stu­denti, ai lavo­ra­tori imma­te­riali e a tutti quelli che non ce la fanno più a sbar­care il luna­rio, di aiu­tarlo a riem­pire le piazze, dall’altro ingiunge di rispet­tarne l’egemonia. C’è tut­ta­via chi replica: viva la lotta di classe! L’egemonia a chi la pos­siede e la merita! Per que­sto domani gruppi di com­pa­gni hanno indetto uno scio­pero sociale — un momento e un luogo di presa di parola di quelli che non hanno rap­pre­sen­tanza né poli­tica né sin­da­cale (pre­cari, lavo­ra­tori intel­let­tuali, dei ser­vizi imma­te­riali, del cogni­ta­riato, par­tite Iva, ecc.) ma anche di quelli che tale rap­pre­sen­tanza non hanno mai avuto o hanno per­duto (migranti, disoc­cu­pati, tutte e tutti coloro che sono tenuti fuori dal mer­cato del lavoro). Scio­pero metro­po­li­tano come forma spe­ci­fica di ricom­po­si­zione della mol­ti­tu­dine nella metro­poli. Lo scio­pero metro­po­li­tano non è un allar­ga­mento e la socia­liz­za­zione dello scio­pero ope­raio: è una nuova forma di con­tro­po­tere. Non vi sarà mai una socio­lo­gia fun­zio­na­li­sta che possa dise­gnare lo scio­pero metro­po­li­tano, l’incontro e l’incastrarsi comune dei vari strati della mol­ti­tu­dine metro­po­li­tana che vogliono costruire con­tro­po­tere e potenza costituente.

È una «prima», rompe le con­ven­zioni e con tutta pro­ba­bi­lità rifiuta le buone maniere, per­ché rico­no­sce e mette in primo piano la nuova realtà dello sfrut­ta­mento — quello che da ormai troppo tempo inve­ste non solo la fab­brica ma la metro­poli, non solo il lavoro ma la fatica di vivere. Sarà uno scio­pero nuovo che costrui­sce coo­pe­ra­zione sociale, che rior­ga­nizza la società degli sfrut­tati? Sarà un momento per inter­ro­garsi su nuovi metodi per inter­rom­pere il con­trollo che il capi­tale afferma sulla società, per costruire una nuova gram­ma­tica poli­tica e per dar vita a spazi costi­tuenti? Padroni e gior­na­li­sti, gover­nanti e lepe­ni­sti diranno comun­que, il 15 novem­bre, che lo scio­pero sociale non è riu­scito. Lascia­moli dire. Avremo dimo­strato che la classe pro­dut­trice e sfrut­tata non è più solo quella che le cor­po­ra­zioni sin­da­cali degli ope­rai e dei lavo­ra­tori a con­tratto rap­pre­sen­tano ma è soprat­tutto quella dei lavo­ra­tori mobili e fles­si­bili, che non cono­scono con­tratto e che den­tro e fuori dalle fab­bri­che subi­scono uno sfrut­ta­mento ingi­gan­tito dal non essere rap­pre­sen­tati. Que­sti lavo­ra­tori rap­pre­sen­tano la mag­gio­ranza della forza-lavoro oggi — è sociale oggi il cen­tro dello scon­tro di classe.

Con lo scio­pero del 14 novem­bre, i com­pa­gni che lo pro­muo­vono vogliono tra­sfor­mare quella realtà lavo­ra­tiva che (occu­pati o no) essi sono, in un nuovo asse ege­mo­nico che com­prenda tutti i lavo­ra­tori, rigetti ogni occa­sione cor­po­ra­tiva di guerra fra i poveri, abbatta con forza ade­guata ogni rea­zione fasci­sta. Nel momento nel quale è vie­tato par­lare di comu­ni­smo e nel quale il fasci­smo si dà un aspetto sem­pre più inquie­tante ed aggres­sivo, è a tutti noi l’obbligo di rico­struire quell’unità fra anti­fa­sci­smo ed anti­ca­pi­ta­li­smo che abbiamo sem­pre avuto pre­sente nella nostra coscienza. In que­sti anni di feroce rea­zione anti-proletaria abbiamo impa­rato che il capi­ta­li­smo non può che pro­durre mise­ria e guerra e che la demo­cra­zia che vogliamo ricon­qui­stare non può andare assieme al capi­ta­li­smo. E poi­ché il con­fine tra lavoro e vita si è fatto sem­pre più sot­tile, l’obiettivo della lotta sociale di classe è dive­nuto quello di otte­nere ed orga­niz­zare in maniera ega­li­ta­ria un «wel­fare del comune». E si comin­cia riget­tando il Jobs Act, nello stesso tempo aprendo lotte sul red­dito garan­tito, sugli ammor­tiz­za­tori sociali, sul costo del lavoro. E poi sulla comu­na­liz­za­zione dei ser­vizi e l’ottenimento di garan­zie sociali per il lavoro. Da domani quei com­pa­gni di lotta comin­ce­ranno a costruire sta­bili labo­ra­tori di que­sto nuovo pro­getto e a svi­lup­pare espe­rienze sin­go­lari di costru­zione di per­corsi e di nuova isti­tu­zio­na­lità comune.

Per­ché oggi si rico­min­cia a lot­tare? Per­ché forse si apre un nuovo ciclo di lotte? Una nuova gene­ra­zione si pre­senta alla lotta su un nuovo pro­gramma — ma soprat­tutto spe­ri­men­tando nuove con­dotte. È pro­ba­bil­mente la sot­ter­ra­nea con­ti­nuità delle lotte pre­gresse e la matu­rità della rifles­sione poli­tica delle nuove gene­ra­zioni che regge oggi una ten­sione di movi­mento capace di durare e di andare lon­tano. Essa ha la neces­sità di nuove isti­tu­zioni — prova a costruirle attra­verso la lotta. L’arco è teso, la freccia…

*tratto da Il Manifesto