editoriale

«Il potere dei falliti» e le sfide del comune

Le disastrose privatizzazioni italiane raccontano di un capitalismo rapace e incapace.

Si è concluso il nuovo siparietto. Unica vincitrice: la governabilità. La gabbia d’acciaio dell’euro, e della troika, conferma la sua forza incontrastata. Sono i perimetri della gabbia a selezionare, di volta in volta, le maggioranze necessarie, a scomporre le forze politiche (l’inesorabile frammentazione del PDL), a definire nuove aggregazioni (il campo moderato a venire, così come le larghe intese). I mercati, così si dice, tirano un sospiro di sollievo, brinda Moody’s, pur non escludendo, anzi, che il rapporto deficit/Pil superi il 3%.

Intanto l’Istat ci segnala che la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40,1%, quella complessiva il 12,2%, il Cnel non ha dubbi: «è certamente l’anno peggiore della storia dell’economia italiana dal secondo dopoguerra». Tutto questo accade e si ricomincia a parlare di privatizzazioni. Se ne parla perché la spagnola Telefonica sta per scalare Telecom, dunque c’è un problema di sicurezza nazionale, perché stessa sorte tocca ad Alitalia, con AirFrance, o a Ilva. Pericolo straniero da una parte; diktat del Fondo Monetario Internazionale – che dalla fine di luglio non smettere di insistere sulla necessità, per l’Italia, di privatizzare i suoi servizi pubblici locali – dall’altra.

Pare che non ci sia memoria, però, salvo rari casi, per le privatizzazioni che l’Italia ha già realizzato a partire dal ’92 (governo Amato, poi Ciampi e Prodi): 141 operazioni fino al 2008, 65 miliardi incassati. Ancora, nessuna memoria per il fatto che, quasi tutte, hanno prodotto disastri, fallimenti, costi per i contribuenti. Telecom, Alitalia e Ilva sono indicazioni inequivocabili della natura del capitalismo («di relazione», come viene definito) italico: rapace, cialtrone, incapace. Si compra senza avere denaro vero da investire; si utilizza e si spreme un enorme patrimonio di risorse, di saperi, di relazioni, esito di fatiche pubbliche; nemmeno un centesimo a sostegno di innovazione e ricerca; si lasciano sulle spalle di tutti i debiti, la disoccupazione, il disastro ambientale, le malattie. Queste le credenziali di chi, senza sosta, lamenta costo del lavoro troppo alto, tasse in eccesso, burocrazia invadente e stigmatizza i giovani, colpevoli di essere disoccupati, precari, poveri.

Con queste credenziali, e mentre a breve le nostre tasche dovranno nuovamente intervenire per salvare MPS o, peggio, Intesa San Paolo (invischiata fino al collo nella vicenda Alitalia), i padroni tricolore pretendono un nuovo banchetto, possibilmente senza ospiti stranieri. I sostenitori del capitalismo buono – penso a Repubblica – tifano multinazionali oneste e luterane. Altrettanto fa il governo, con il piano Destinazione Italia, redatto, guarda caso, dal numero uno dell’Eni. Nel dibattito pubblico si oscilla dalla giusta avversità all’austerity, senza qualificazioni ulteriori, all’anti-politica. Alcuni, pochi, rilanciano le nazionalizzazioni, facendo finta di non sapere che se ne faranno eccome (vedi MPS), ma a favore dei privati che falliscono.

Due sono le domande che, nel pieno del saccheggio dei PIIGS, dell’Italia in primis, occorrerebbe porsi con un certo rigore: cosa significa “forza del comune” contro la svendita di public utilities e servizi locali? Il problema – come giustamente ci ricorda Marco Bascetta – non è certo la nazionalità del predatore, la vera urgenza è capire come la mobilitazione sociale e politica che ha difeso l’acqua, definendola bene comune, possa diventare prassi consolidata, ostile alla nuova «accumulazione originaria». Impresa complicatissima, intendiamoci, ma decisiva. Seconda domanda: possibile estendere il «que se vayan todos», slogan indiscusso dei movimenti contemporanei, ai big del saccheggio, così come – nel caso italiano – ai cialtroni delle privatizzazioni fallite? Possibile, cioè, assediare, oltre ai palazzi della politica, quasi sempre vuoti, comunque vuoti di potere, sedi o luoghi simbolo di multinazionali e grandi gruppi? Si tratterebbe, badate bene, di rilanciare pratiche già presenti negli scioperi inglesi della primavera del 2011 o nelle mobilitazioni spagnole contro banche e banchieri. Nella consapevolezza, infine, che tutto ciò potrà essere efficace se, e solo se, avrà la capacità di disporsi sul terreno europeo, salendo dal basso, dai PIIGS verso Francoforte.